Parliamo di M., un ragazzino di origini russe, adottato
all’età di 2 anni e 4 mesi attraverso il circuito
dell’adozione internazionale. Frequenta la V elementare
e presenta difficoltà di apprendimento in ambito
scolastico: «Ha problemi nella lettura e scrittura».
Durante il primo incontro con i genitori emerge che
M. era stato sottoposto a varie valutazioni neuropsichiatriche.
All’età di 6 anni gli era stata attribuita una prima
diagnosi di deficit attentivo e iperattività, a 10 anni gli
avevano diagnosticato dislalia e disgrafia. L’adozione,
che i genitori ritengono un elemento «poco rilevante»
per le difficoltà scolastiche ma tanto doloroso da comunicarlo
solo alla fine, rappresenta da subito un indicatore
estremamente importante ai fini della valutazione psicologica1.
I genitori, sembrano trascurare l’effetto dell’adozione
nell’insorgenza delle difficoltà, prima attentive
e poi scolastiche di M., dichiarando un’estrema
preoccupazione relativa alla possibilità di un ritardo intellettivo.
Il ritardo da loro temuto verrebbe manifestato
da M. principalmente nell’incapacità di leggere correttamente,
di scrivere in modo comprensibile e di non
riuscire talvolta a capire ciò che gli spiegano e/o a non
ricordare ciò che loro gli dicono.
Le loro preoccupazioni vengono esasperate dalle continue lamentele delle insegnanti rispetto all’impossibilità
di comprendere la grafia di M., tanto che viene proposto l’utilizzo di un ausilio computerizzato da usare in
classe a cui M. si oppone comprensibilmente per non sentirsi “discriminato” rispetto ai compagni. Il non volersi
sentire “diverso” emerge anche dal suo desiderio di cambiar nome proprio perché riflette le sue origini non
italiane. M. mostra, dunque, una tendenza a “rifiutare la differenza” nel tentativo di assimilare la filiazione adottiva
a quella naturale. L’adozione e l’abbandono riconducono ai concetti di “diversità” e di “non amabilità” che fanno sentire i bambini come M. non meritevoli di amore e insicuri nella relazione con i genitori adottivi. Il legame affettivo reso insicuro dalla paura di essere nuovamente abbandonato, dal dolore derivato da una perdita reale (perdita della mamma biologica) e dalla paura legata a una perdita immaginata (perdita della mamma adottiva), si manifesta in M. attraverso
il bisogno continuo di rassicurazioni, mettendo continuamente alla prova i genitori, provocandoli o opponendosi con continui capricci, come li definisce il padre: «Non risponde alle nostre domande, non vuole mai fare i compiti, dice tante bugie, si intestardisce e vuole a tutti i costi andare al McDonald’s anche se la mia macchina è guasta». Sono tipici, inoltre, in M., momenti di regressione infantile, quando per esempio parla con il tono della voce di un bambino più piccolo e piange disperato.
L’angoscia abbandonica
e l’ansia da separazione
dai suoi genitori lo inducono
quasi tutte le sere a
chiedere di dormire nel
lettone con i genitori o
chiedere al papà di rimanere
sveglio fino a quando
lui non si addormenta:
«Perché non vuole dormire
da solo, non è successo
nulla prima di andare a letto,
né un temporale, né un
litigio». M. ha paura che al
risveglio possa non trovare
più i suoi genitori e quindi
non fa altro che chiedere
rassicurazione mantenendo
la massima vicinanza fisica
alle figure per lui significative:
mamma e papà. I
comportamenti che riguardano
la richiesta di cura o
di vicinanza protettiva sono
innati e messi in atto da
tutti i piccoli della specie
umana, basti pensare per
esempio al pianto del neonato
che piangendo chiama
a sé la madre quando
questa è lontana. Bowlby
(1969, 1973, 1980) ha definito
questi comportamenti
“sistema di attaccamento”.
La loro funzione è
quella di orientare il bambino
verso la madre per garantirsi
protezione e sopravvivenza
in caso di pericolo.
Tale sistema è sempre
attivo, in particolar
modo nei bambini piccoli
poiché maggiormente vulnerabili.
In M. il sistema di attaccamento
è sempre attivo,
per controllare la disponibilità
dei genitori in quanto,
proprio come un bambino
piccolo è estremamente
vulnerabile. La sua
vulnerabilità deriva dalla
deprivazione di cure materne
e dalla mancanza di
un’altra figura significativa
vicariante o sostitutiva,
dall’istituzionalizzazione
per circa 2 anni di vita e
dalla presenza di genitori
adottivi molto spaventati.
All’ansia da separazione si
aggiunge una forte ansia
da prestazione rispetto alle
sue performance scolastiche:
la paura è quella di essere
giudicato negativamente
perché non bravo a
scuola e ciò amplifica il timore
di non essere amato
(“se non sono bravo a scuola
come vogliono i miei genitori
allora non sono amabile
abbastanza”).
Le paure diM. aumentano
i suoi stati dissociativi
(«è sempre distratto, non
ascolta quando gli parliamo
») e sono la causa, in
forma psicosomatica, dei
comportamenti nervosi descritti
dal padre: «Muove
continuamente la spalla
destra verso l’alto o la testa
da destra a sinistra velocemente,
sembra che abbia
dei tic, inoltre fa continuamente
cr cr con la gola».
Tutto ha inizio quando,
in I elementare, la maestra
assegna come compito
quello di disegnare la
propria famiglia attraverso
un albero genealogico.
A seguito di tale episodio
M. inizia a mostrare le prime
difficoltà scolastiche, a
essere sempre distratto in
classe, a non voler fare i
compiti. In II elementare
viene assegnato un secondo
compito: descrivi te
stesso e i tuoi genitori. M.
reagisce con una chiusura
totale nei confronti della
scuola, rifiutando ogni
giorno di fare i compiti sia
con i genitori sia con le varie
insegnanti di dopo
scuola che si succedono.
La maestra sollecita i genitori
a prender provvedimenti
perché oltre al fatto
che M. non completava i
compiti assegnati a casa, la
sua scrittura era incomprensibile. Le preoccupazioni
scolastiche dei genitori
aumentavano e di conseguenza
aumentavano anche
la brutta grafia, gli errori
nella lettura, l’oppositività
nel fare i compiti e i
problemi attentivi di M., a
tal punto che i genitori decidono
di risolvere il problema
cambiando scuola.
Nella nuova scuola i problemi
aumentano notevolmente
perché M. è posto
in un ambiente sconosciuto
in cui sperimenta “nuovamente”
una situazione
di “diversità” (scuola, insegnanti
e amici nuovi) che
rinforza in lui la tendenza
a negare e rifiutare la “differenza”.
A 10 anni, a una
festa incontra un ragazzino
che veniva dalla Bielorussia
e con il quale trascorre
tutto il tempo, destando
nei genitori preoccupazione
e meraviglia:
«Ma come, invece di giocare
con i suoi amici, lui che
fa? Se ne va con questo ragazzino
più grande di lui e
che non ha mai visto prima,
poi dopo qualche giorno
ci chiede di andare in
vacanza in Bielorussia». Il
desiderio di M. di andare
in un Paese simile a quello
in cui è nato e scoprire-ricostruire
le sue origini, la
sua identità etnica, la sua
memoria autobiografica,
non viene compreso nel
suo significato più profondo
dai genitori che ritrattano
la meta vacanziera:
«Andiamo a Disneyland, è
più divertente». I genitori
non se la sentono di negare
una vacanza al figlio ma,
purtroppo, offrono un’alternativa
che non corrisponde
al suo reale desiderio
(andare in Russia e
non in vacanza). La strategia
difensiva, messa in atto
inconsapevolmente dai genitori,
è un modo per controllare
la propria paura ossia
di essere loro stessi abbandonati
dal figlio, di
non essere bravi abbastanza
per essere amati da un figlio
che non è loro biologicamente.
I genitori di M. sono
semplicemente dei genitori
inesperti rispetto alle
problematiche psicologiche
e affettive che vive un
figlio adottivo. Sono genitori
che possono dare tanto
amore, anche se terrorizzati
dalla paura di perdere
un figlio. Come afferma
la scrittrice Anna Genni
Miliotti: «La cosa più
difficile da dare ai figli, in
una famiglia biologica, sono
le ali. La cosa più difficile
da dare ai figli, in una famiglia
adottiva, sono le radici.
In entrambe le famiglie
la cosa più necessaria
è l’amore. Entrambe sono
famiglie d’affetti». M. con
i suoi lunghi silenzi, con le
sue risposte telegrafiche,
con i suoi continui «non
lo so», con il rifugiarsi continuamente
nei suoi stati
dissociativi, esprime una
sofferenza di estrema profondità,
rimasta a lungo silente
e informe per mancanza
di qualcuno in grado
di pensarla ed esprimerla
in parole perché
troppo grande o spaventosa
per essere affrontata.
La mamma e il papà di
M., infatti, spaventati di
non essere amati dal figlio
tanto da poter essere prima
o poi loro stessi abbandonati,
hanno evitato di affrontare
insieme il tema
dell’adozione e tutte le
paure a essa legate. Nel
corso del tempo M. non
ha avuto una guida per riuscire
a mettere insieme un
quadro complessivo della
sua esistenza. M. non ha
una storia di vita conosciuta,
i suoi ricordi sono frammentati,
discontinui, confusi
e dolorosi. I suoi schemi
mentali sono organizzati
in maniera caotica e rimandano
a significati emotivi
(come il non essere
amabile) troppo complessi
e intensi da poter essere
tollerati. Il congelamento
cognitivo, emotivo (difficoltà
di comprensione ed
espressione delle emozioni)
e comportamentale
che ne deriva, si manifestano
con una disorganizzazione
del linguaggio
(«boh... humm... sì, forse...
non lo so, ma, forse
no»), con una chiusura comunicativa
e rigidità fisica.
I disegni “degli omini”,
figure stilizzate senza volto,
senza mani e piedi, sono
l’espressione grafica
del mondo interiore di M.
caratterizzato da un vuoto
emotivo, da un’angoscia
catastrofica e da una paura
che diventa, come afferma
Bion, un terrore senza
nome. Per M., quindi, entrare
in contatto con le
proprie emozioni è mostruoso,
incomprensibile
e intollerabile, da tenere
lontano, da evitare.
Con l’avvicinarsi delle
vacanze estive e quindi dell’interruzione
temporanea
della terapia, M. mette
in atto delle strategie difensive
per gestire l’ansia
da separazione dalla terapeuta:
«Non voglio venire
più, qui mi annoio» il cui
significato è: “interrompo
io la nostra relazione prima
che possa farlo tu”.
Con la collaborazione
dei genitori, che non si sono
scoraggiati né spaventati,
M. ha incontrato la sua
terapeuta per mettere per
iscritto delle regole di setting
(date e orari degli appuntamenti
previsti per
settembre), per fare un
patto scritto in cui entrambi,
terapeuta e M., si impegnano
a rivedersi a settembre
e che negli incontri
non avrebbero parlato. Il
patto scritto, in duplice copia,
lo ha rassicurato rispetto
al fatto che la terapeuta
non lo avrebbe abbandonato
come avevano
fatto i suoi genitori biologici. Esso, inoltre, fungeva
da schema in cui M. poteva
ordinare mentalmente
la dimensione temporale
(date e orari degli incontri)
e la dimensione emotiva
in quanto avevamo concordato
che non si sarebbe
parlato né avrebbe dovuto
rispondere a domande,
ciò lo rassicurava rispetto
al fatto di non dover
affrontare tematiche
per lui dolorose.
«Dott.ssa come devo fare
per risolvere il “problema
dei compiti”? Sono i
compiti che mi preoccupano,
perché poi credo che
crescendo diventerà più
maturo e non farà più capricci
e con il tempo tutto
andrà meglio» (padre).
Non ci sono ricette già
pronte da applicare più o
meno automaticamente
ma bisogna iniziare a considerare
le difficoltà scolastiche
di M. come la conseguenza
di profonde difficoltà
sul piano affettivo-relazionale
e, purtroppo,
non bastano solo i fattori
maturazionali e il tempo a
ristrutturare un’immagine
negativa di sé e dell’altro,
bensì una relazione sicura,
stabile, duratura e significativa.
Nel tentativo
di smorzare la corazza protettiva
del padre spiego
che i compiti sono qualcosa
di insopportabile e generatori
di sofferenza in
quanto nella mente del figlio
sono associati a un
evento fortemente traumatico:
il compito di costruire
il proprio “albero genealogico”,
cioè di ricostruire
l’abbandono prima
e l’adozione poi. L’albero
di M. è spoglio, non
è ramificato, non ha una
chioma fitta e rigogliosa
perché mancano degli elementi
che sono attribuibili
da un lato a un’incapacità
di M. di mentalizzare
l’abbandono, e quindi
l’adozione, e dall’altro a
una difficoltà emotiva e comunicativa
da parte dei genitori
di condividere la sofferenza
del figlio.
I genitori di M. sono talmente
preoccupati dalle
performance scolastiche negative
del figlio, troppo
giudicanti con sé stessi e
severi nel valutare le proprie
capacità genitoriali
da perdere di vista l’immenso
bisogno di M. di essere
amato, non giudicato,
rassicurato sul fatto
che nessuno lo abbandonerà
più. I genitori iniziano
pian piano a dare un significato
diverso alle problematiche
di M., a dare
meno importanza ai voti
scolastici, a non rimproverarlo
per la pessima grafia.
La mamma, in particolar
modo, si è impegnata a essere
più comprensiva cercando
di capire i bisogni
di un figlio “reale”, non
quelli del figlio desiderato
e/o immaginato.
Questi “nuovi” atteggiamenti
dei genitori aiutano
M. ad avere fiducia in sé
stesso, a sentirsi più sicuro
nella relazione tanto da dire
meno bugie, da non nascondere
i compiti e mostrandosi
più comunicativo.
Inoltre la madre, smettendo
di fare l’interrogatorio
e trasformando le sue
domande in semplici e
comprensibili esplicitazioni,
inizia a svolgere, quella
che Kohut (1978) chiama
funzione di rispecchiamento
del mondo interiore
del bambino. La mamma
incomincia, quindi, a
dare un nome alle emozioni
che M. non riconosce
come tali e a dare un significato
ai suoi comportamenti.
Per esempio: «Mi
dispiace, ti ho spostato i
soldatini, solo ora capisco
che probabilmente hai
avuto una brutta mattinata
a scuola e quindi ti sei
arrabbiato perché rientrando
a casa non hai trovato
le tue cose al loro posto
». La mamma così facendo,
regala a M. un
“nuovo specchio” in cui
M. può vedere un ragazzino
amato, un ragazzino
che ha tante doti che non
era riuscito ancora a sviluppare
incoraggiandolo
ad avere fiducia nel suo potenziale
inespresso.
La mamma infatti, un
giorno, dice a M.: « Anche
se la tua grafia non è bellissima,
ci sono tante cose in
cui sei bravo, come, per
esempio, riprodurre tutto
ciò che vedi con modellini
in carta. Questa non è una
cosa semplice, da tutti».
Queste “nuove” modalità
comunicative e relazionali
dei genitori, apprese con
grande impegno in un lungo
lavoro terapeutico, possono
aiutare M. a sviluppare
un sé degno di amore e
una maggiore sicurezza
nella relazione con i genitori,
che hanno imparato
a mostrarsi come fonte di
conforto nei momenti di
paura o di ansia, un porto
sicuro dove potersi rifugiare.
Al termine del percorso
terapeutico, il padre è
riuscito a comunicare
quanto amore possano
provare dei genitori verso
un figlio venuto da lontano,
tanto da cambiare sé
stessi: «Noi non abbiamo
cambiato il suo nome anche
se nell’istituto dove
l’abbiamo adottato ce lo
avevano proposto. Non
l’abbiamo fatto perché
noi lo accettiamo così come
è in tutto e per tutto!».