Come affrontano dei genitori il dolore di un figlio che muore all’improvviso in un giorno d’estate o che ha commesso un errore imperdonabile che lo terrà in carcere o che è malato e deve essere accompagnato tutti i giorni nel suo cammino complicato? È la domanda da cui è partita la ricerca di Alessandra Erriquez, blogger e scrittrice, che ha provato a rispondere facendosi regalare da genitori coraggiosi delle storie ritagliate dalla sofferenza ma cucite di speranza. Raccontarle con cura, scegliendo le parole è diventato un dovere di affetto e rispetto che è finito anche nel titolo del libro: Ho scelto le parole. Genitori, dolori, rivoluzioni, pubblicato dalle edizioni Meridiana. Dieci incontri in giro per l’Italia, entrando in punta di piedi nelle case di famiglie intrepide anche nella capacità di condividere la propria storia.
«Ho intrapreso un viaggio, faccia a faccia col dolore. Non il mio», dice Erriquez. «Un viaggio in posizione di domanda: qual è il confine tra il nostro potere e la nostra paura? Cosa s’offre a un figlio che soffre? Ho trovato risposte diverse, tutte vere. Dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole». Da ogni incontro, confessa l’autrice, «ho imparato qualcosa, come genitore, ma in generale come persona. E dopo ogni incontro non riuscivo ad addormentarmi. Ripercorrevo nella memoria le voci dei papà e delle mamme, le loro espressioni più autentiche. Scrivendo ho tenuto a conservare le loro parole testuali perché dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole».
LA DOMANDA DELLE DOMANDE
Ognuno ha il suo modo di raccontarlo, chi con fede, chi con ironia, chi con ostinata speranza. Questo è il senso “rivoluzionario” della possibilità di affrontare il dolore.
Nel libro c’è un capitolo che inquieta: La teoria dell’uovo rotto. È la definizione brutale di un medico che consigliava con insistenza l’esame dell’amniocentesi per indagare il dubbio su una sindrome di Down nel nascituro. Di fronte alla resistenza dei genitori cercò di convincerli affermando: «Non vi rendete conto che può essere un uovo “rotto”?». Forse è per questa similitudine che quel bambino è nato proprio il giorno di Pasqua, con una patologia cardiaca grave che rende permanente la sua fragilità di “uovo”, ma diventando al contempo una Pasqua quotidiana per i suoi genitori che da un figlio così fragile traggono forza: è lui ad insegnare al padre a ridere e alla madre ad affidarsi.
Ci sono uova “rotte” nel disegno di Dio per gli uomini? Nel bagaglio con cui Erriquez ha affrontato il viaggio nel dolore c’è la sua personale capacità di empatia con il dolore altrui, ma anche la fede. La domanda sul perché del dolore dei bambini è la “regina” delle domande; anche papa Francesco, interrogato da una bambina in lacrime nelle Filippine, ha confessato «non lo so» e ha potuto solo abbracciarla.
Suonano inefficaci formule consolatorie un po’ generiche, tipo che «Il Signore non dà a nessuno una croce che non può portare». «Non ci credo», dice semplicemente la scrittrice. «Nasce dalla fiducia nella forza delle persone di reagire al dolore, ma suona come una condanna. Il dolore, però, non è una condanna, così come non è un merito reagire. A volte a questi genitori si dice: “Come siete bravi, io non ci riuscirei…”, ma bisogna vivere in una situazione per sapere quali risorse si possiedono. Il dolore può abbrutire o incattivire. Ci può essere la capacità di trovare parole nuove oppure no. Ho visto genitori disperati o che compiono atti disperati. Non tutti affrontano il dolore, ma tutti possono farlo. È questo il messaggio del libro. Accanto alla fede in Dio, c’è quella profonda nell’uomo».
MAI DA SOLI, SEMPRE INSIEME
Ma, alla fine, che cosa si offre a un figlio che soffre? «Anche su questo non c’è una risposta unica. Ognuno trova la sua, anche attraverso queste storie. Forse la cosa migliore da offrire è la parte di sé più vera, la fragilità», riflette Erriquez, che cerca le parole per non tradire quelle che ha raccolto nel suo viaggio: «Ciò che mi ha colpito dei genitori è la capacità di mostrarsi come persone che non hanno il pieno controllo su cosa accade. Di fatto non ce l’hanno nemmeno i più fortunati. Anche quando affidiamo i nostri figli alla scuola non abbiamo più il controllo su di loro. Bisogna vivere il dolore del loro dolore. Questa verità avvicina ai figli ed è un dono. Forse per i figli è più facile sentirsi vicino a un genitore che non si mette su un gradino, ma confessa di non sapere come affrontare un dolore. La chiave per sentirsi vicini diventa allora: affrontiamolo insieme».