«La scelta era difficile, a rischio c’era la mia vita, ma non potevo mettere in pericolo la piccola che avevo dentro di me». Il silenzio della pianura di Casal Velino, un paesino immerso nella natura del Cilento, tra il giallo delle ginestre e il verde della macchia mediterranea a pochi chilometri dal mare, fa risuonare le parole pacate di Angela Bianco. Si vive un’esperienza profonda ascoltando la storia di una ragazza ricca di speranze e dubbi, fatta di paure e fede.
Aveva 26 anni Angela quando, nell’agosto del 2013, scopre di avere un tumore. «Ero svenuta in casa dopo un mal di testa dilaniante», ricorda. Trasportata d’urgenza all’ospedale di Vallo della Lucania, la ragazza va in coma per un’emorragia cerebrale. Dopo qualche giorno si risveglia e la trasferiscono al policlinico Umberto I di Roma, per una biopsia. «Il verdetto fu terribile: un tumore maligno al cervello», racconta dalla terrazza di casa nella campagna salernitana. «Pensai alla mia vita, ma anche alla piccola di tre mesi che viveva dentro di me. In pochi secondi le immagini della mia storia mi si presentavano come un film. Dico ai medici che non voglio abortire, desidero che nasca mia figlia, un dono grande. A qualunque costo».
UNA SCELTA DIFFICILE
Angela, viso dolce e occhi scuri, si trova di fronte a una scelta di sopravvivenza. Tra le ipotesi di cura che le vengono presentate, scarta l’aborto. «Avevo bisogno di un consiglio, di uno scoglio cui aggrapparmi, mi rivolsi al dottor Salvatore Ronsini, il ginecologo che mi aveva seguita per tutto il percorso». La storia della mamma che sta rischiando la vita in quei giorni di agosto si diffonde subito. Un gruppo di pellegrini campani in quei giorni è a Lourdes: pregano anche per lei alla grotta di Massabielle, dove la Madonna apparve a santa Bernadette. «Tra di loro c’era un mio vicino di casa, compagno di classe del dottor Pantaleo Romanelli, un medico che avrebbe potuto aiutarmi, e mi contatta». Infatti, tra le ipotesi che le avevano prospettato, c’era una nuova possibilità d’intervento, il Cyberknife, un macchinario per la radiochirurgia in grado di bombardare in modo mirato le cellule tumorali. La tecnologia arrivava dalla Stanford University, negli Stati Uniti, e utilizza una serie di innovazioni prodotte nel cuore della Silicon Valley. La casualità, o la provvidenza, vuole che il vicino di Angela conosca il neurochirurgo italiano che negli Usa utilizza questa tecnica. «Pensai che poteva essere la soluzione, salvare la bambina e continuare a vivere», ripensa commossa.
Inizia da qui un’altra storia, perché l’intervento innovativo, da fare con la massima urgenza, non era contemplato in Italia. Ricoverata a ottobre all’ospedale di Bari, la ragazza aspettava trepidante il parere positivo per l’autorizzazione dalla regione Puglia, in un tam tam mediatico sulla mamma di Casal Velino incinta e in pericolo di vita, che riempì le pagine dei giornali. Intanto lo sviluppo delle cellule tumorali avanzava inesorabile, mentre i tempi della burocrazia per i permessi diventavano letali. «Alla fine, con il professor Romanelli, decidiamo di eseguire l’intervento in Grecia», spiega Angela. «Voliamo ad Atene cercando con la massima rapidità di agire con il Ciberknyfe, non danneggiando il feto». Prega tanto Angela, e con lei le comunità di amici e conoscenti, da Lourdes al Cilento.
Romanelli interviene al quinto mese di gravidanza con quel computer in grado di orientare alte dosi di radiazioni in modo mirato, salvando la madre senza ledere la vita nel suo grembo.
SOSTENUTA DALLA VERGINE
A questo punto entra in gioco il suo rapporto con la fede, che per la ragazza diventa un supporto fondamentale. Don Luigi Maria Marone, un sacerdote del Cilento, la accompagna spiritualmente in tutte le fasi del ricovero, incoraggiandola ad aver fiducia in Dio. «Mi ha aiutato molto la preghiera in un momento difficile: grazie alla fede mi sono salvata», afferma senza mezzi termini. «Il parroco mi fece donare il velo da sposa alla Madonna Immacolata: il giorno che le fu messo in testa, è stato l’ultimo di chemio dopo tempi durissimi».
Oggi, nella sala da pranzo dell’abitazione di Casal Velino, la piccola Francesca Pia, 5 anni e tanti riccioli, fa le prove di danza, preparandosi emozionata per un saggio. La mamma la segue con un sorriso nella quiete dell’imbrunire.
Terminata la chemio da 5 anni, Angela segue un percorso di controlli di medicina nucleare con la Pet Tac e la risonanza magnetica. È più serena: la battaglia per la vita ha unito madre e figlia, solidali e combattenti, sempre più.
«Perché l’ho chiamata Francesca Pia? Una notte sono stata male e mi sono ritrovata davanti la statua del santo di Pietrelcina: gli promisi che avrei dato quel nome alla bimba. Adesso ho un desiderio», conclude schiettamente con un sorriso : «Raccontare questa storia a papa Francesco, in fondo la bimba si chiama anche come lui!».
Foto di Roberto Salomone