Quando il giudice Guido Galli fu ucciso all’Università statale di Milano, il 19 marzo 1980, tra le sue carte trovarono un biglietto: «Se mi succede qualcosa, chiamate il collega Armando Spataro». Fu un’esecuzione in piena regola, rivendicata da Prima Linea. Abbiamo raggiunto Spataro, ex procuratore di Torino, oggi in pensione, per capire meglio l’atmosfera di quei giorni in cui tra il 16 e il 19 marzo furono uccisi dal piombo dei terroristi di sinistra tre magistrati: Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini e Guido Galli.
Dottor Spataro, lei sapeva di questo appunto?
«Ho avuto come maestri proprio Alessandrini e Galli ma ho lavorato di più proprio con Galli. No, non sapevo assolutamente di questo appunto che portava con sé e che mi ha accompagnato per tutta la mia vita. Era connesso alla consapevolezza che i magistrati impegnati in indagini sul terrorismo correvano rischi per la propria incolumità, ma nello stesso tempo nessuno di noi assumeva atteggiamenti da vittima designata, da eroe abbandonato, da unico combattente per la verità. C’era solo la consapevolezza che quello era il nostro dovere: io, ad esempio, a quel settore ero stato assegnato per puro caso. Dopodiché sapevamo che la materia era in quegli anni esplosiva, che si trattava anche di comprendere le motivazioni di quei criminali, di analizzare documenti, di predisporre strategie di contrasto. Quel lavoro di squadra è stato un patrimonio che ha arricchito tanti, e negli anni successivi è stato per me uno strumento indispensabile per ogni tipo di indagine delicata».
Stavate lavorando insieme a indagini sul terrorismo di sinistra, Galli aveva appena scritto l’ordinanza di rinvio a giudizio per Corrado Alunni, tra i fondatori del gruppo estremista Formazioni Comuniste Combattenti. Si può leggere quell’esecuzione come una vendetta diretta?
«Sì la vendetta diretta da parte di un branco di assassini imbecilli: quello che è scritto nel documento di rivendicazione dell’omicidio di Galli, come del resto di quello di Emilio Alessandrini, non parla di un giudice repressore, ma di una persona particolarmente corretta; nel caso di Alessandrini anche di una persona che si batteva perché l’azione della procura fosse efficiente: addirittura quelle rivendicazioni costituiscono quasi una conferma postuma delle qualità degli uccisi, sicchè, per assurdo, non ci troviamo di fronte alla logica ordinaria della vendetta, cioè quella della ritorsione, ma di fronte ad una motivazione contraddittoria rispetto all’evento. Ricordo che in un’intervista a Gian Antonio Stella, Marco Alessandrini, figlio di Emilio (ucciso da Prima Linea il 29 gennaio del 1979 a Milano ndr), spiegò che aveva perso il padre quand’era ancora bambino, che non aveva del tutto elaborato quel lutto, ma che la cosa che più continuava a fargli rabbia era sapere che suo padre era stato ucciso da dei cretini. Condivido in toto, solo una massa di idioti poteva pensare di cambiare l’assetto dello Stato, instaurando la dittatura del proletariato attraverso l’uccisione di alcune centinaia di persone molte delle quali eccellenti».
Mentre il terrorismo nero agiva con una dinamica stragista, colpendo nel mucchio in modo casuale, di fronte alle rivendicazioni dell’eversione di sinistra si ha la sensazione che si scegliessero i bersagli che davano credibilità allo Stato che si voleva rovesciare. È così?
«Esattamente, si pensi a Walter Tobagi nel giornalismo, ad Aldo Moro nella politica. Ciò non toglie che il terrorismo di destra sia stato altrettanto insensato e di più: uccidere persone che sono in una piazza, in una stazione, in una banca senza sapere il nome di chi muore non ha una logica neppure perversa. Tra gli uni e gli altri è stata una gara alla follia difficile da vincere. E questo dobbiamo dirlo senza se e senza ma, dal momento che ancora c’è chi dice che in fondo erano persone che si battevano per un ideale. Lo voglio ribadire: ciò è del tutto inaccettabile».
Capita ancora di sentire chi si riferisce a quegli anni parlando di “guerra civile a bassa intensità”, presumo che per un uomo di legge questa espressione sia l’equivalente di una bestemmia laica, o sbaglio?
«È una bestemmia laica, non l'equivalente. E non dobbiamo dimenticare né i pseudo intellettuali che dicevano “né con lo Stato né con le Br”, nè i tanti che hanno sottoscritto appelli sulla “persecuzione dell’innocente Cesare Battisti”, il quale, quando è stato estradato, ha confessato e li ha sbugiardati tutti. Non ne ho sentito uno fare autocritica. Non ritengo che il terrorismo sia stato un fenomeno di massa: le evidenze giudiziarie parlano di 3-4.000 persone, certamente molte, ma si tendeva a far credere che fossero decine e decine di migliaia. Ed ancora qualcuno oggi lo ripete. Già nel 1979 il movimento operaio prese le distanze senza nulla concedere alle posizioni estremiste, è importante capire questo».
Carla, la figlia di Guido Galli, mi diceva che ci si può fare una ragione di una follia individuale, molto molto meno di una follia collettiva che ha contagiato tante persone apparentemente normali.
«La cosa più assurda è che questo movimento violento è arrivato in una stagione di riforme sociali: diritto del lavoro, diritto penitenziario, diritto di famiglia. Carla ha perfettamente ragione. Purtroppo certe ideologie trovavano allora seguito, ma per capire come ciò sia stato possibile dobbiamo analizzare quei tempi. Piazza Fontana è stata importante, la paura di veder realizzare un colpo di stato di destra ha spinto verso l’estremismo persone che avevano ideologie radicali ma che in un contesto diverso non avrebbero imboccato la via della violenza armata. Alcuni scelsero la clandestinità senza essere ricercati per paura del colpo di stato di destra».
A distanza di 40 anni, chi era piccolo fatica a capire. Si ricordano appena le Br, eppure Prima Linea fu violentissima. Come spiegherebbe quegli anni a chi non c’era?
«È importante distinguere le strategie dei vari gruppi. Non era un corpo compatto, c’erano frizioni, dissociazioni, dissensi: le Brigate rosse erano per la clandestinizzazione assoluta al fine di sollevare il proletariato; Autonomia Operaia invece era dentro le masse quasi senza clandestinità; Prima Linea scelse una strada intermedia anche se poi si spostò verso le Br; le Formazioni combattenti comuniste di Corrado Alunni sono nate come scissione da Autonomia ma poi si sono quasi fuse con Prima Linea. Ma c’era comunque una filosofia dominante, che teneva insieme la logica diffusa della violenza, secondo cui si doveva realizzare la dittatura del proletariato per abbattere lo stato imperialista delle multinazionali, questo senza che vi fossero mandanti esterni e grandi vecchi, o complotti, come sostengono i teorici dei misteri che non ho mai apprezzato».
Nel 1980 in tre giorni sono stati uccisi così tre magistrati in quattro giorni: Giacumbi a Campobasso, Minervini a Roma, Galli a Milano. Che cosa ha lasciato questa stagione a una magistratura di 9.000 persone che ha visto uccisi 27 colleghi tra terrorismo, mafie, vendette private in poco più di vent’anni?
«Voglio intanto ricordare che vi furono polemiche anche tra magistrati, alcuni affermarono all’epoca che un magistrato democratico non dovesse indagare sul terrorismo utilizzando i pentiti, spero che si siano ricreduti. I magistrati, come tutti i cittadini, hanno dinanzi a sé una sola strada da percorrere, quella del dovere, la normalità del dovere è la stella polare di tutti, come ripeto spesso anche ai giovani magistrati nei corsi di formazione. Nel libro Ne valeva la pena, ho riportato un dialogo immaginario scritto da una collega siciliana che ha ben conosciuto Falcone e Borsellino. Ebbene i due, si ritrovano in un luogo chiamato “la Casa degli Uomini eletti” – che non è il Paradiso – dopo che si erano impegnati a non incontrarsi più, stanchi di vedersi intitolare strade e piazze in posti che neppure conoscevano. A quel punto decidono di parlarsi e Borsellino dice a Falcone: “è assurdo che ci chiamino eroi perché siamo stati uccisi, semmai perché abbiamo voluto capire e conoscere con ostinazione”. Ecco : anche a me non piace parlare di eroi, ma di persone che hanno fatto il loro dovere con ostinazione. Pensiamo a Francesco Coco (procuratore, ucciso a Genova l’8 giugno 1976). Le Br avevano sequestrato Mario Sossi e ricattarono lo Stato affermando che lo avrebbero liberato solo se fossero stati scarcerati alcuni terroristi. La Corte d’Appello di Genova, convinta che la salvezza dell’ostaggio lo legittimasse, emise il provvedimento di scarcerazione. Coco fece ricorso in Cassazione impedendo la scarcerazione dei terroristi – come allora era possibile per legge - e la Cassazione gli diede ragione. Ma le Brigate Rosse uccisero Coco che aveva fatto solo il suo dovere».