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lunedì 14 ottobre 2024
 
Riforma del lavoro
 

Meno articolo 18 per pochi, più tutele per tutti

23/09/2014  Il “contratto unico” del ministro Poletti è una buona idea. Perché scambia una garanzia per pochi (il diritto di reintegro) con un diritto di tutti. Quello alla vera stabilità del posto di lavoro.

Mettiamola così: a noi il progetto di riforma del lavoro targato Poletti piace. Piace pur se comporta il regicidio dell’articolo 18, la fine dell’era del reintegro sul posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusta causa. Piace perché a quella garanzia - che ha avuto indubbi meriti storici ma oggi vale per una minoranza di lavoratori (quelli impiegati in imprese con oltre 15 dipendenti) – sostituisce garanzie crescenti per tutti. E perché mette al posto di quel totem un obiettivo vero, concreto, reale: dare a tutti i nuovi assunti un contratto a tempo indeterminato. Non sarà la scomparsa dell’articolo 18 la causa di nuovo precariato. E’ il sistema  economico in affanno che trova ogni sbarramento possibile (compreso l’articolo 18), per non assumere o per farlo in modo precario. E dunque se il baratto è tra articolo 18 e contratto a tempo determinato (pur se a tutele crescenti) noi preferiamo il baratto.

Lo facciamo guardando ai dati. Tra 2008 e il 2013 il tasso di occupazione è sceso del 4,2% e l’Italia ha perso quasi 1 milione di posti di lavoro. La disoccupazione giovanile è stabilmente ben oltre il 40%, il part time è cresciuto al 18% ed è sempre più involontario (61% del totale).

Che il posto fisso non sia più una certezza non lo dice solo il fatto che il 65% delle nuove assunzioni oggi sia “a termine” (a volte brevissimo) ma anche che la quota di trasformazione da contratti a tempo determinato in contratti standard si sia abbassato negli anni (dall’80% del 1998 al 60% del 2007). Come affermano i dati dell’Isfol,  il 17 per cento delle persone in cerca di occupazione nel 2005-06 approdava a un’occupazione non standard, mentre nel 2010-11 la quota si è ridotta al 12,8 per cento.

Tutto questo per dire che la flessibilità in entrata, che è stato il mantra delle politiche del lavoro degli ultimi anni, ha dato quel che ha potuto. Ma oggi questo qualcosa è poco. E non sarà il permanere dell’articolo 18 a sanare la situazione. Creare nuovo lavoro vuol dire consentire che tra imprese e lavoratore si possa stipulare un patto di funzionalità reciproca più equo: contratto stabile in cambio di prestazioni all’altezza. Un patto che si tiene da sé, senza bisogno di vincoli di altro tipo. E senza alibi da nessuna delle due parti.

Ecco perché accapigliarsi sull’articolo 18 e il diritto di reintegro ci sembra un falso problema. Un tema di identità per qualcuno – sindacalisti, politici d’antan, nostalgici di un mondo che non tornerà -  ma non per un ventenne a caccia di un posto. Il suo problema è un altro. E’ trovare un varco nelle mura della cittadella del lavoro, in quel fortino in cui fratelli maggiori e genitori sono asserragliati da anni e che persistono a puntellare con il coltello tra i denti. Sia chiaro: a noi non piace che il livello di garanzie si sia abbassato, ma pensiamo che questa dinamica sia globale, mondiale. E per combatterla occorre un’azione ben più ampia della singola battaglia sull’articolo 18, per quanto simbolicamente saporita. Non è benaltrismo ma realismo dire che qui e ora si debba pensare a garantire nuovi ingressi di under 30 nel mondo del lavoro per mettere in sicurezza il sistema economico e la tenuta dei conti pubblici. Perché lavoro giovane (e stabile) vuol dire redditi e dunque domanda, e a seguire crescita.  

L’azione del ministro Poletti ci pare vada in questa direzione. Prima, con un decreto in avvio di legislatura, ha liberalizzato i contratti a termine, provando ad agire sulla quantità dell’occupazione. Ora tenta di alzare la qualità del lavoro, introducendo un contratto a tempo indeterminato per tutti i nuovi assunti. Francamente non ci importa che tutto venga fatto sull’onda di una richiesta europea. Ci interessa dare ai ventenni più stabilità. Non diamo alibi alle imprese per non farlo.

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