Dacca, Bangladesh
«Mi hanno pagato 6.000 taka (circa 60 euro, ndr.) come compensazione dei danni per quello che mi hanno fatto». Si presenta con la faccia coperta da bende, lacrime e sangue, piange e urla allo stesso tempo: è una ragazzina su una carrozzella rudimentale. La incontro in una manifestazione di piazza, a Dacca. È l’intero popolo bengalese che protesta dopo il crollo - avvenuto il 24 aprile - di cinque fabbriche tessili nel Rana Plaza a Savar, una periferia industriale della capitale del Bangladesh. Questa operaia uscita viva dalle macerie
si chiama Ciendei, mi dice il collega bengalese che è con me: ha letto il nome sul braccialetto di ricovero del Pronto soccorso. Ciendei ha perso un occhio e una gamba nel disastro che ha ucciso più di 1100 persone, il più grande disastro industriale registrato nella storia del mondo intero.
A soli 19 anni Ciendei è ora handicappata grave, disoccupata, con due bambini. Ci racconta che ha perso una sorella maggiore vittima del crollo della fabbrica: dovrà occuparsi anche di altre tre bambini di sua sorella rimasti orfani. Chissà quante altre storie simili ci sono tra le oltre 3.000 lavoratrici che ogni giorno venivano sfruttate dentro gli otto piani del Rana Plaza o tra gli altri 4 milioni di lavoratori quasi schiavi dell’industria dell’abbigliamento in Bangladesh. Sono tutti pagati circa 40 euro al mese.
Pochi giorni dopo in Cambogia è crollata una grande fabbrica di scarpe da ginnastica, facendo altri morti; anche in questo caso si tratta di produzioni a basso costo per grandi firme europee ed americane. In Cambogia lavorano nel settore tessile e abbigliamento oltre mezzo milione di persone.
I prodotti esportati valgono 4 miliardi di dollari l’anno in Cambogia e oltre 20 miliardi in Bangladesh, cifre che attraggono molta corruzione in tutti i procedimenti di controllo della sicurezza sul lavoro. Di fronte a manifestazioni popolari di protesta imponenti e a volte violente, il governo bengalese ha subito promesso un piccolo aumento dei salari nel settore tessile e ha ordinato la chiusura di altre 200 fabbriche di abbigliamento in costruzioni fatiscenti.
Dato che la fabbrica è crollata, l’impresa è chiusa e non pagherà più le
150 ore di straordinari nei mesi passati che Ciendei aveva scritto nel
suo quadernetto tutto macchiato di sangue. Ci accorgiamo che il nome di
questa ragazza è strano, non è un nome comune bengalese. Le chiediamo
perchè si chiama così e ci mostra la maglietta bianca C&A sporca di
sangue: in inglese C&A si legge proprio Ciendei. Sua madre è una
lavoratrice che produce magliette C&A e ha messo la sua speranza
di vita e l’orgoglio del suo lavoro nel nome dato alla figlia. Insieme
alla svedese H&M, alla spagnola Zara e altre grandi firme di
abbigliamento di marca a buon prezzo, anche l’olandese C&A ha
firmato subito un nuovo codice mondiale di comportamento che
dovrebbero rispettare tutte le industrie tessili dei paesi in via di
sviluppo che forniscono prodotti per la grandi firme europee.
I loro siti internet sono pieni di dichiarazioni di buona volontà e di
politiche corporative responsabili, compresa la lotta al lavoro minorile
in Bangladesh e in altri paesi asiatici e il rispetto dell’ambiente e
della sicurezza sul lavoro. I recenti incidenti gravissimi hanno
dunque fatto suonare l’allarme emergenza nell’industria mondiale
dell’abbigliamento de-localizzata nei Paesi con salari bassi. Sarà
sincera l’intenzione che i loro portavoce hanno espresso di smettere lo
sfruttamento di lavoratori ridotti in situazione di quasi schiavitù?
Davvero i grandi marchi europei cancelleranno i contratti con i
fornitori che continueranno come prima? Davvero potranno rivoluzionare
le forme di produzione in modo da eliminare le pessime abitudini del
passato, le violazioni dei diritti umani, il disinteresse per la salute e
la sicurezza dei lavoratori?
E quando tra un anno qualche autorità bengalese tornerà sulle macerie
del Rana Plaza a commemorare il più atroce incidente del lavoro della
storia del Paese, potrà segnalare il nuovo corso dell’industria tessile,
dallo sfruttamento senza regole a un’alleanza onesta con i sindacati per offrire ambienti di lavoro sicuri?
Oppure dovrà invece menzionare le statistiche di altre fabbriche
crollate schiacciando i sogni di liberazione dalla fame e dalla povertà
di migliaia di poveri?
Viene naturale chiedersi chi potrà controllare efficacemente e
credibilmente i comportamenti di 5.000 fabbriche nel solo Bangladesh. Forse
la risposta più corretta ed efficace la possono dare i consumatori dei
prodotti delle grandi marche europee di abbigliamento, chiedendo a voce
alta ai produttori politiche trasparenti di rispetto dei diritti umani
dei loro operai, anche in quei paesi dove i governi sono disposti invece
a chiudere un occhio per non perdere il grande business.
Sandro Calvani,
direttore del Centro ASEAN
sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio
delle Nazioni Unite,
Asian Institute of Technology,
Bangkok, Thailandia
www.sandrocalvani.it
Jeans e magliette, scarpe e sciarpe: a
nche i capi di abbigliamento che indossiamo, spesso ignorandolo, sono sporchi del "sangue"
versato da lavoratori morti per le condizioni di lavoro in cui sono
costretti. È per difendere i loro diritti, a maggior ragione nei Paesi
come il Bangladesh, dove molte multinazionali portano
gli stabilimenti così da produrre le collezioni destinati ai mercati
occidentali riducendo all'osso i costi e ottimizzando i ricavi, che è
nata la
campagna "Abiti puliti".
L'ultima catena che ha accettato di aderire alle richieste esercitate dalla CCC, Clean clothes campaign, a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum fissato,
è stata Benetton: l'azienda italiana ha sottoscritto l'accordo per la sicurezza e la prevenzione degli incendi nel Paese asiatico che comporta un impegno a 360°.
In particolare, l'impegno assunto prevede ispezioni indipendenti,
incontri formativi per i lavoratori in merito ai loro diritti,
diffusione dei risultati e l'obbligo di revisione strutturale degli
edifici e interruzione delle relazioni commerciali con le aziende che
rifiuteranno di adeguarsi.
«Il cuore dell’accordo - spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair e portavoce della Campagna Abiti puliti -
è l’impegno delle imprese internazionali a pagare per la messa in
sicurezza degli edifici, unitamente ad un ruolo centrale dei lavoratori e
dei loro sindacati. Solo attraverso una diretta partecipazione dei
lavoratori del Bangladesh sarà possibile costruire condizioni di lavoro
sicure e mettere la parola fine a tragedie orribili come quella del Rana Plaza».
Dal 2005 a oggi sono almeno 1.700 gli operai tessili bengalesi
ufficialmente morti a causa della scarsa sicurezza delle strutture.
Alberto Picci
Il 24 aprile, a Dacca, capitale del Bangladesh, un edificio chiamato
Rana Plaza crollò, uccidendo circa 1.200 operai. Tutti del settore
tessile, perché il Rana Plaza rigurgitava (oltre 3 mila “inquilini”) di piccole fabbriche e botteghe artigiane del settore tessile
che, con le sue 4.500 aziende (che occupano oltre 3 milioni di persone,
per il 90% donne), procura i due terzi delle esportazioni del Paese. Il
Bangladesh, con i suoi 161 milioni di abitanti, è uno dei Paesi più
densamente popolati e più poveri al mondo.
Il disastro di Dacca, per le sue caratteristiche, ha “bucato” il muro
della scarsa informazione e dell’indifferenza che in genere avvolge i
drammi sociali del Terzo Mondo.
Quella che molti non hanno notato,
invece, è la reazione dell’Unione Europea, che ha minacciato di togliere al Bangladesh la clausola di “preferenza generalizzata",
che consente appunto ai prodotti di quel Paese di essere importati in
Europa senza “quote” (cioè senza limitazione di quantità) e senza dover
pagare accise.
E’ una minaccia paradossale.
Per essere competivi rispetto
alla richiesta europea, i prodotti del Bangladesh devono costare men che
pochissimo. Un’ora di lavoro di un operaio tessile in Bangladesh costa
in media mezzo dollaro, contro per esempio i 21,9 dollari che si
registrano in Italia. Un vero sfruttamento, che fa il paio
(appunto) con le infine condizioni di sicurezza in cui gli operai sono
costretti a lavorare. Solo grazie a queste condizioni disumane le
importazioni del tessile del Bangladesh sono riuscite a farsi largo in
Europa, dove nel biennio 2010-2012 sono cresciute del 9% (fino a formare
il 6,4% di tutte le importazioni tessili della Ue), mentre calavano del
10% quelle della Cina, del 4% quelle della Turchia e del 17% quelle
dell’India. E ora li minacciamo di render loro ancor più dura le vita?
Fulvio Scaglione
E' di due morti e sei feriti - di cui tre in modo grave - il bilancio
del crollo avvenuto la mattina di giovedì 16 maggio in una fabbrica di scarpe in Cambogia. Lo ha
riferito Ith Sam Heng, ministro per gli affari sociali, riferendo sull'incidente che ha ridotto in macerie lo
stabilimento Wing Star Shoes, a 40 km dalla capitale Phnom Penh. La tragedia è stata provocata dal cedimento di alcune travi d'acciaio
che sostenevano un'area nel tratto comunicante tra due edifici, al piano
ammezzato. Sotto accusa è l'eccessivo peso caricato su quel piano
sopraelevato in cemento, stipato di scarpe e macchinari.
Al momento dell'incidente, le sette ora locale, gli operai all'interno del complesso erano
una cinquantina. La fabbrica, gestita da circa un anno da una
società di Taiwan nella provincia di Kampong Seu, produceva calzature in
particolare per la Asics: tra le macerie sono stati rinvenuti diverse
scatole di scarpe da ginnastica del marchio giapponese. Lo scorso marzo,
gli operai della Wing Star Shoes avevano scioperato per chiedere un
aumento di salario e migliori condizioni di lavoro.
Tra i morti, anche Reom Saroun, 22 anni: nella fabbrica lavoravano otto membri della sua famiglia.
Lo stabilimento fa parte della galassia dell'industria tessile
cambogiana, che impiega oltre 500 mila persone, e che con 4,6 miliardi
di dollari di fatturato contribuisce piu' di ogni altro settore alle
esportazioni nazionali, dopo il boom di investimenti avvenuto
nell'ultimo decennio. Le retribuzioni sono tra le più basse in Asia;
recentemente, dopo un'ondata di scioperi nelle fabbriche
d'abbigliamento, il governo ha portato il salario minimo mensile a 75
dollari.
Il sanguinoso evento segue la tragedia del 24 aprile
alla periferia di Dacca, in Bangladesh. Il crollo del complesso che
ospitava cinque fabbriche di abbigliamento ha provocato 1.127 morti,
scatenando un dibattito globale sulle responsabilità delle grandi
aziende tessili occidentali che producono in massa nei Paesi dell'Asia
meridionale e sud-orientale.
Alberto Chiara