Seduto al centro di una stanza che si affaccia sul giardino, dove regna un ulivo secolare, Andrea Camilleri si gode il riposo estivo nella sua casa di Santa Fiora, il grazioso borgo toscano ai piedi del Monte Amiata. «Ho tradito la mia Sicilia perché qui mi trovo benissimo e non ho bisogno dell’aria condizionata, che detesto», confida lo scrittore. «Qui di solito lavoro», aggiunge, «ma non quest’anno, perché mi è venuta un’improvvisa voglia di non fare niente. Forse è la prima volta che mi prendo una vacanza vera». Alla vigilia del suo 93° compleanno (che festeggia il 6 settembre) Camilleri ha scritto un libro indirizzato alla pronipote Matilda, di 4 anni, in uscita per Bompiani: Ora dimmi di te. Lettera a Matilda.
«Quando è nata la bambina», confida Camilleri, «mi sono commosso pensando che non avrei avuto il tempo e la possibilità di sentirla cominciare a ragionare. Mi sono chiesto: “Che cosa le racconteranno di questo catanonno?”, come diciamo in Sicilia. Così ho preferito dirglielo io. È una specie di esame di coscienza davanti a una bambina, una confessione del bisnonno».
Nei suoi racconti emerge una costante, il suo spirito ribelle, fin da ragazzo.
«Ma lo sa che me ne sono accorto da vecchio che ero ribelle? Ripassandomi queste storie mie, spesso mi sono detto: “Cavolo, dove ho trovato il coraggio di fare ’sta cosa?”. Mi sono accorto che non ero un tipo tanto tranquillo, ma credo di aver avuto ragione quando ho detto no a qualche cosa. Comunque chiedo a Matilda: dimmi tu se ho sbagliato o no».
Sbagliò da ragazzo a lanciare le uova contro il crocifisso del Collegio vescovile di Agrigento?
«Non fu mica un episodio tanto buffo, ricordo che dopo mi svegliavo in preda a sudori freddi. Ma lo feci per farmi cacciare da quell’inferno che era il convitto».
Lei racconta che i suoi veri maestri li ha sempre trovati fuori dalla scuola.
«Diciamo quasi sempre. Devo essere grato alla scuola per due professori che non dimenticherò mai. Il docente di Filosofia Carlo Greca e quello di Italiano, Emanuele Cassesa. Cassesa è riuscito a farci capire Dante divertendoci, come Benigni».
E lei, docente per molti anni di Regia teatrale, che insegnante è stato?
«Ero severissimo nelle selezioni di ammissione. Sceglievo gli allievi non tanto per la cultura, ma scommettendo sul loro patrimonio di intuizioni e intelligenza. Se facevo leggere l’Amleto e poi li interrogavo, ottenevo risposte di ventenni pieni di intuizioni interessanti. Certe mattine mi sentivo Dracula, perché il confronto era tutto a favore mio, mi sentivo rinnovare il sangue, mi venivano altre idee nate dalle loro. Perciò dicevo sempre che il giorno più triste della mia vita sarebbe stato quello dell’addio all’insegnamento. Infatti lo è stato».
La perdita della vista e il dover dettare i suoi testi come hanno cambiato la sua scrittura?
«Io mi denisco un contastorie, non cantastorie, perché non canto neppure quando mi faccio la barba. L’oralità è sempre stata importante perché ogni mia pagina l’ho riletta a voce alta, una o due volte, e mi accorgevo quando perdevo il ritmo, rallentavo troppo o una parola stonava. Perciò non mi è difficile dettare».
C’è qualche immagine particolare che le manca?
«Certe volte la sera, prima di addormentarmi, faccio l’esercizio di ricordarmi i colori di un quadro che ho amato. Uno di questi è la Flagellazione di Piero della Francesca. Allora mi interrogo: qual è il colore delle vesti dei tre personaggi a destra? Poi al mattino faccio fare il controllo e scopro che, qualche volta, la mia memoria ci ha visto giusto».
Di recente che lettura l’ha emozionata?
«Un libro di Philip Roth, L’animale morente, mi è parso davvero molto bello ed emozionante. Roth è stato un grande scrittore e non ho proprio capito perché non gli abbiano mai dato il Nobel, se lo strameritava».
È vero che una volta il vescovo di Agrigento le disse che i vescovi siciliani volevano proporla come senatore a vita?
«Sì, ma li fermai, per carità. Rifiutai anche una candidatura da parte dei Democratici di sinistra. Io ho sempre fatto politica da cittadino, scrivendo articoli e lettere ai giornali, ma non me la sentivo di impegnarmi, anche perché avrebbe rubato tempo alla scrittura».
C’è un tema che la appassiona?
«Mi preoccupano le troppe famiglie a rischio povertà. Fino a quando non si risolveranno veramente i problemi del lavoro, che è non solo la possibilità fondamentale di portare a casa il pane, ma anche la tua dignità di uomo, saremo sempre nei guai».
Cosa pensa del nuovo Governo?
«Quando sento gli spropositi di Salvini penso a un vecchio proverbio siciliano: Cu è chiù scemo, Carnalivaru o cu ci va appresso? (è più scemo Carnevale o chi gli va dietro?, ndr). Salvini è stato eletto dagli italiani, quindi rappresenta una mentalità che evidentemente avevamo e che restava nascosta nel sottofondo. Ora la colpa non è di Salvini, ma di quelli che lo hanno eletto e, siccome siamo in democrazia, ce lo dobbiamo sorbire».
Rimpiange un’epoca?
«Il clima del primo dopoguerra, quando c’era in giro un grande entusiasmo. Certo, c’erano anche delle sfide terribili fra Togliatti e De Gasperi, però quei due si chiamavano, appunto, Togliatti e De Gasperi. In politica, sono stato educato male. Anche se ero comunista, con tanto di tessera, come facevo a non avere rispetto per un uomo come De Gasperi?».
Ma nei suoi ricordi non c’è malinconia, come mai?
«È vero, non so che farci. Vittorio Alfieri diceva che verso il tramonto della vita viene l’umore nero, ma io non so che cosa sia. Ho avuto una vita fortunatissima, un lavoro che mi piaceva, una famiglia, una sola moglie con cui sono sposato da 61 anni. Magari mi arrabbio per le vicende politiche, ma poi mi passa subito. Forse non mi prende la malinconia perché ho fiducia nell’uomo e tantissima fiducia nei giovani».
E in Dio non ha mai creduto?
«Non mi vanto di non essere credente, ho un rispetto autentico e anche un po’ di invidia per chi ha fede. Però ho una fede superstiziosa in san Calogero. Sono nato il giorno della sua festa, proprio durante la processione di Porto Empedocle, e Calogero è il mio secondo nome. È il santo più amato dai poveri della costa meridionale della Sicilia, anche se ci sono rivalità. San Calogero di Naro fa le grazie per denaro, san Calogero di Canicattì fece una grazia e se ne pentì, invece il mio san Calogero da Marina fa una grazia ogni mattina. È il più generoso e io ogni tanto accarezzo la sua statua, che tengo nel mio studio».