Quando i produttori della fiction sul massacro del Circeo hanno ascoltato quelle parole non hanno avuto dubbi. L’omelia ai funerali di Rosaria Lopez pronunciata da don Pietro Occelli (che insieme a don Giacomo Alberione è stato uno dei fondatori di Famiglia Cristiana che diresse nel biennio 1933-‘34), doveva essere inserita per intero. Parola per parola. Perché ognuna era un macigno, una denuncia lucida e capace di restituire tutto il disgusto per il male scagliandosi contro i protagonisti – mentre una parte della società “processava” le ragazze – di un massacro che ha varcato i decenni ed è entrato nella memoria collettiva degli italiani.
«Vi è qui», disse Occelli, «una sperequazione evidentissima che il delitto sottolinea: “loro” hanno avvocati di altissimo grido, hanno una magistratura che guarda benevola, hanno sempre la libertà provvisoria: e hanno anche le smaccate evasioni fiscali di padri ricchissimi che erano e sono rimasti fascisti. I figli di queste canaglie possono ammazzare, spendere e spandere, assassinare per non annoiarsi…».
Parole durissime che rimasero impresse come dimostra la scena della fiction in cui i giornalisti di nera che seguivano il caso, si ritrovano a cena e commentano le parole di don Pietro Occelli: «Ma avete visto che omelia ha fatto?».
“Loro” sono tre giovani della Roma bene: Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, tutti dell’alta borghesia capitolina e militanti negli ambienti di estrema destra. I primi due erano compagni di classe al Liceo classico San Leone Magno, istituto cattolico privato dove la retta mensile, agli inizi degli anni ’70, raggiungeva quasi i due milioni di lire.
Tra il 29 e il 30 settembre del 1975 torturarono per più di un giorno e una notte, fisicamente, psicologicamente e sessualmente Rosaria Lopez, 19 anni, e Donatella Colasanti, 17, due ragazzine della borgata romana della Montagnola, ex periferia sud e ora agglomerato residenziale tra l’Eur e la Garbatella, che li avevano seguiti nella villa di Ghira, a San Felice Circeo, sul litorale pontino.
Attirate entrambe con l’inganno, convinte di trascorrere un pomeriggio al mare e andare a una festa. Rosaria morirà, Donatella sopravviverà fingendosi morta accanto al cadavere dell’amica, entrambe avvolte in sacchi di plastica.
Quarantasette anni dopo, la serie Circeo ricostruisce quanto accaduto e i processi che seguirono da un punto di vista femminile (e femminista) con Ambrosia Caldarelli e Greta Scarano nei ruoli di Donatella Colasanti e dell’avvocata Teresa Capogrossi, quest’ultimo personaggio di fantasia.
Nei panni di don Pietro Occelli, invece, c’è Andrea Pennacchi: «Quando mi hanno proposto di interpretarlo non conoscevo chi fosse», racconta l’attore, «poi ho letto l’omelia e ho detto subito di sì perché era talmente forte e carica di un rigore morale e di una rabbia giusta. L'omelia era un monologo straordinario anche dal punto di vista teatrale. Vibrante, coraggiosa, e soprattutto difficile da pronunciare in quel momento dove gli occhi e le orecchie di tutti gli italiani erano posati su di lui e su quella ragazza straziata da una violenza perversa e inaudita».
È il 4 ottobre 1975 e nella chiesa di Gesù Buon Pastore, alla Montagnola, è arrivata una folla immensa, e sgomenta, per dare l’ultimo saluto a Rosaria Lopez. Tre giorni prima, i giornali, le televisioni e le radio d’Italia hanno aperto tutti con la stessa notizia: in un’auto in viale Pola, nel quartiere Trieste, sono state trovate due ragazze. Nude. Avvolte nelle coperte.
«Temeteli, questi pariolini straricchi, che tutto possono, che tutto hanno», dice don Occelli davanti alla bara di Rosaria. «Ha dimostrato un coraggio superiore alla media», riflette Pennacchi, «dopo aver ascoltato quelle parole ho approfondito la storia di questo prete che era stato partigiano e risollevò il quartiere negli anni faticosi della ricostruzione postbellica».
Don Pietro Occelli (1903-1994) con Donatella Colasanti (1958-2005), la ragazza sopravvissuta alla strage.
Qualcuno, sui giornali dell’epoca, scrisse che don Occelli aveva incitato all’odio di classe e lo bollò come comunista. «Fu un grido», dice l’attore, «l’omelia è pervasa da questo senso di giustizia ferita. C’è la denuncia della violenza feroce causata dai soldi e dal privilegio. Non è una denuncia della ricchezza in sé ma del fatto che quella ricchezza possa illudere di comprarsi la libertà, la giustizia, le vite degli altri, il non pagare le conseguenze del male compiuto. E poi sì, in don Occelli, figura gigantesca che meriterebbe una fiction a parte, c’è l’ammissione amara di aver fallito come educatori perché gli stupratori e assassini erano tutti di formazione cattolica».
E d’altra parte don Occelli ne era consapevole: «Rosaria era qui da 5 anni, Donatella sta nelle case del Comune», disse a Franca Zambonini che lo intervistò per Famiglia Cristiana poche settimane dopo i funerali, «sono famiglie che conosco, che amo, come amo tutte queste famiglie di qui che devono stare attente e vigilanti, perché camminano con lo stipendio misurato. Si sono illuse, povere ragazze, questa è tutta la loro colpa. Quando sento giornali che le definiscono le “borgatare della Montagnola”, come a dire che sono un sottoprodotto, una riserva per i figli dei quartieri alti, be’, allora concedete a un parroco di farsi prendere dall’indignazione».
Occelli – in un rovesciamento che poteva sembrare paradossale – definì quello dei Parioli un quartiere “malfamato” non certo per i redditi dei suoi abitanti ma per l’abisso morale in cui erano caduti gli aguzzini che da quel quartiere arrivavano e i cui nomi erano segnati più volte nel libro dei conti non pagati con la giustizia o pagati solo in forma di acconti: «Non volevo contrapporre il quartiere dei ricchi a quello dei poveri», spiegò nell'intervista, «io i ricchi li amo, perché li vedo deficitari, colpiti dalla condanna di Cristo. Ho citato nel mio discorso le parole del cardinale vicario di Roma Ugo Poletti che due anni fa ha denunciato gli squilibri di questa città, le distanze abissali tra i redditi, le ricchezze accumulate per egoismo e non ridistribuite, i privilegi».
Il 30 giugno 1976 si apre il processo davanti alla Corte d’Assise di Latina, che vede come imputati Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, quest'ultimo latitante. L’avvocata di Donatella Colasanti è Tina Lagostena Bassi, una figura di spicco del femminismo italiano di quegli anni.
La strategia degli avvocati della difesa è subito chiarissima: ottenere la non imputabilità per Angelo Izzo e infangare la memoria di Rosaria e la reputazione di Donatella suggerendo che i genitori avrebbero dovuto tenere a freno quelle due ragazze, impedendo loro di uscire. Certamente, così, nulla di spiacevole sarebbe accaduto.
Se Rosaria Lopez è stata uccisa e Donatella Colasanti devastata per sempre è perché se la sono cercata. Nella sua arringa finale l’avvocato di Guido, Angelo Palmieri, lo disse chiaramente: «Se le ragazze fossero rimaste accanto al focolare, dove era il loro posto, se non fossero uscite di notte, se non avessero accettato di andare a casa di quei ragazzi, non sarebbe accaduto nulla».
Andrea Pennacchi nei panni di don Pietro Occelli durante il funerale di Rosaria Lopez
I paramenti di don Occelli sono custoditi presso il Museo storico dei Granatieri che si trova a Roma in piazza Santa Croce in Gerusalemme. Perché don Pietro, nato a Busca (Cuneo) il 21 novembre 1903 e morto ad Albano Laziale nel 1994 a 91 anni, è stato una figura fondamentale nella Resistenza partigiana cristiana di Roma, tanto da essere insignito con la Medaglia d’argento al Valor militare.
Amico di Pier Giorgio Frassati, militante della Fuci, dopo la laurea in Giurisprudenza, a 26 anni entra nella Società San Paolo, diventa sacerdote e dopo l'esperienza come direttore di Famiglia Cristiana, nel ’38 viene inviato a Roma nel quartiere allora periferico della Montagnola e diventa parroco della comunità di Gesù Buon Pastore fino al 1970 (con un periodo di sospensione): qui svolse il suo ministero pastorale al servizio degli ultimi «vivendone», come ha scritto Franca Zambonini, «tutti i drammi: la povertà degli inizi (aveva per chiesa un capannone), la guerra e l’occupazione tedesca (ne nascose tanti, anche 20 ebrei in canonica vestiti da frati), la resistenza (54 uccisi sulla piazza dove ora sorge la chiesa che ha appunto un mosaico con 54 croci), il Dopoguerra con gli sfollati e gli anni Cinquanta con la selvaggia crescita edilizia».
L’8, 9 e 10 settembre 1943, nella cosiddetta “battaglia della Montagnola”, è protagonista: supporta le truppe italiane sull’allineamento Forte Ostiense-Laurentina, soccorre feriti e benedice i caduti. Forma la prima banda partigiana cristiana, radunando quel nucleo di democratici e antifascisti che diede vita alla reazione armata. Don Occelli mise in salvo l’abbazia di San Paolo Fuori le Mura, invasa dai nazifascisti, chiedendo aiuto al Vaticano.
Il 9 settembre 2021 è stato ricordato con una targa commemorativa a piazzale Caduti della Montagnola, quale «esempio illuminante di libertà, senso civico e democrazia».
A chi lo accusava di essere un “prete rosso”, rispondeva così: «Nel mio ufficio ho incorniciata l’ultima lettera dal fronte di Giosuè Borsi, me l’ha mandata la sua mamma; e ha una frase, un motto: “Amore e libertà per tutti, ecco l’ideale per cui è bello dare la vita”. Se lo scriva questo motto, che ho fatto mio da giovane. Che mi buttino pure addosso un colore…Durante la guerra ho protetto tutti, senza chiedere il colore. Grazie a Dio sta finendo questo colorismo politico, siamo tutti stanchi di vecchie faide, oggi l’esigenza della giustizia sociale in giro si comincia a sentire». Era il 1975. Sembrano parole di oggi.