Cari amici lettori, con la ripresa dell’“anno sociale” anche nelle nostre comunità ripartono le diverse attività pastorali. Credo che tutti ci chiediamo – o per lo meno siamo preoccupati – della “trasmissione della fede” a ragazzi e giovani. Una Chiesa che non genera nuove generazioni alla fede semplicemente non obbedisce al mandato affidatole da Gesù.
Ma come fare a raccontare efficacemente la fede alle nuove generazioni?
A questa domanda ha provato a suggerire alcune risposte un sociologo statunitense, Christian Smith, le cui riflessioni si basano su una robusta ricerca socio-religiosa sul mondo giovanile. Un primo punto su cui riflette lo studioso è il tipo di fede riscontrata nelle tante persone intervistate, soprattutto sotto i 35 anni: persone che egli chiama MTD («deisti moralisti terapeutici»).
In parole semplici, esse hanno una visione molto irenica della fede: credono in un Dio creatore sì, ma lontano, che non si deve mescolare alle faccende umane, che raccomanda di essere “buone e gentili”, al massimo si ricorre a Lui perché ci risolva qualche problema; scopo della vita è essere felici. Discorsi come Gesù, la Bibbia, il peccato, il bisogno di conversione, entrano poco o niente in questa visione.
Qui mi sorge una prima riflessione: quale visione di cristianesimo abbiamo e di conseguenza trasmettiamo?
La formazione (anche degli adulti) è all’altezza di una fede che non sia fatta soltanto di quelle credenze generiche citate sopra? Curiamo la crescita della nostra fede con strumenti adeguati?
Smith propone poi una lista di cose che “funzionano” e altre che “non funzionano”. Tra queste ultime cita anzitutto genitori troppo passivi, che non fanno nessuno sforzo cosciente di trasmettere la fede ai figli. Ma non funziona nemmeno l’approccio autoritario, né il solo limitarsi a “dare il buon esempio” senza che i genitori parlino ai loro figli dei motivi per cui credono e praticano certe cose. Non aiuta ovviamente l’incoerenza, il predicare bene e “razzolare male” (“vai a Messa”, io però non ci vado…). Così come è illusorio delegare la formazione della fede a catechismo, campi scuola, ritiri: cose utili, ma che non sostituiscono il ruolo fondamentale della famiglia nel dare l’esempio e guidare il percorso.
In positivo, quali sono le cose che “funzionano”?
Secondo Smith, la fede deve apparire ai ragazzi come una priorità, vissuta (e praticata) dai genitori nella loro vita; ma deve essere anche oggetto di dialogo durante la settimana: «Parlare ai bambini di questioni religiose durante tutta la settimana», ha dichiarato in un’intervista, «è uno dei meccanismi più potenti per trasmettere la fede ai figli». Non parlarne loro, in modo personale, vuol dire mandare il messaggio che la fede non è una cosa importante. Infine, conta l’atteggiamento autorevole con cui i genitori accompagnano questo processo: con affetto e vicinanza da una parte, ma anche con la capacità di essere esigenti, senza essere autoritari e lasciando che i ragazzi elaborino e interiorizzino quanto loro proposto. C’è molto su cui riflettere.
Con una certezza: se non si assume coscientemente e con gioia questa responsabilità, si andrà poco lontano.