Dulcinea corre serena tra i boschi della Lunigiana. Scompare, torna indietro, si ferma e aspetta l’uomo che da due anni ha come compagno di cammino. Il setter e il prete sono figure familiari tra i sei abitanti di Crocetta, 900 metri di altitudine, terra di passaggio sull’Appennino tosco-emiliano, al confine con la Liguria, boschi aspri e fitti, dove arrivi con un atto di fede, pensando che la strada sia terminata.
«Stavo accompagnando a un campo scuola un gruppo di adolescenti, in Puglia. Leggevo il don Chisciotte. Arrivato alle ultime pagine, quando lui toglie il “don”, sono scoppiato in lacrime». Alessandro ricorda esattamente il momento in cui ha capito che la vita gli chiedeva di fare un salto (per qualcuno nel vuoto): la parrocchia, l’oratorio pieno, le opere caritative bene avviate, il centro culturale… non erano più la sua strada. «“Smetti di voler fare bene il prete e chiediti se sei felice”, mi ha detto un gesuita, a un corso di esercizi, a Bologna, dopo un lungo colloquio spirituale».
Una scelta di vita diversa
Non è il capriccio di un momento, né la crisi di mezza età. Alessandro Deho’, 46 anni, è “diversamente” prete. È cresciuto in oratorio, così come il fratello e la sorella; i genitori, Franco e Gianna, si erano conosciuti in parrocchia. Prima di essere ordinato, a Bergamo, nel 2006, è stato infermiere. «L’ho fatto perché cercavo un senso, mi interrogava la debolezza, il bisogno». Anche la scelta di diventare prete va in questa linea: «Mi piace essere a fianco della gente, avevo un’impostazione molto sociale».
Le figure che lo accompagnano nel percorso formativo sono vicine alla sensibilità di papa Francesco. «Don Tonino Bello, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani. Avevo un’idea chiara di Chiesa e comunità. E sono sempre stato convinto che, se spieghi bene, la gente capisce e le cose cambiano. Mi sono spaventato quando ho realizzato che non esiste “il prete giusto”, che i modelli che avevo in mente erano più importanti delle persone». Alessandro diventa parroco, in due comunità molto diverse. «Ero anche bravino». Assemblee pastorali, consulta economica, «il giovedì a disposizione 24 ore per la formazione biblica e i colloqui. La gente mi chiedeva come poteva essere utile alla comunità. Ho sentito che la struttura della parrocchia era più forte di me, mi è sembrata la corazza di Davide».
Dal 2019 inizia un cammino di discernimento. Nutrendosi di quella Parola che, come oggi raccontano i numerosi libri che ha scritto, lo accompagna come amica fedele. Il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, «ha capito che non era una fuga, si è fidato». «Per trovare ciò che hai perso devi perderti un po’ anche tu. Devi perdere tempo. Devi perdere l’equilibrio. Devi perdere convinzioni. Devi perdere sicurezze. Devi perdere sonno. Per trovare, devi entrare a far parte dei persi e dei perdenti. Come ha fatto lui», scrive nel suo primo libro, Maria. Un cammino, (Paoline) che in filigrana aiuta a entrare nella sua scelta. C’è silenzio a Crocetta. A un paio di chilometri dal paese dove Alessandro si è stabilito c’è un antico santuario della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, un tempo meta di pellegrinaggi popolari, oggi riparo per gruppi o singoli viandanti.
Una casa che accoglie
Nella sua casa il prete accoglie cercatori senza etichette. Il giardino dove «prego, cammino, accolgo, ascolto, celebro, vivo, scrivo», come recita il suo blog, è uno spazio che riflette questo essere in divenire. L’abitazione, comprata con un mutuo, era una specie di rudere tra i tanti in questo borghetto ormai disabitato. Pietra e legno, ancora un po’ cantiere, ha l’aria di un rifugio. Alessandro l’ha rimessa in piedi, con l’aiuto di qualche muratore dei paesi a valle e la magia di Gino, il vicino di casa, scultore, che dà un’anima ai pezzi di legno e ai vecchi tronchi, trasformandoli in panchine, pupazzi, oggetti domestici. Le bandiere tibetane, quella della pace, un forno in pietra accolgono i visitatori. In casa cd di buona musica, film d’autore, riproduzioni delle tele di Rotcho.
Sono tanti quelli che, per caso o per scelta, passano di qui. «Qui sei libero di scoprire la fantasia di Dio. Non faccio l’eremita, non sono un monaco. Incontro la gente in un altro modo, non devo dimostrare nulla. I libri sono un pretesto, chi legge poi mi scrive, passa, si costruisce un dialogo. Qui ti regali pezzi di stupore senza giudizio». Negli anni in parrocchia, dice, «alla fine ho imparato che la gente vuole che essere ascoltata, che ti fermi sul suo volto. Che la accompagni. Per questo penso che le parrocchie debbano destrutturarsi, avere comunità più piccole, puntare sulle relazioni».
La giornata di Alessandro funziona in questo modo: «Al mattino scrivo, lavoro nel bosco o nell’orto, nel pomeriggio accolgo chi vuole condividere un po’ di tempo con me. Parlando, ascoltando, pregando oppure gustando il silenzio». Oltre a celebrare l’Eucaristia nella cappella a Crocetta, dà una mano nelle comunità della zona, a Pozzo, Busatica, Castagnetoli e al santuario della Madonna del Monte.
Quando don Alessandro ha annunciato in diocesi la sua nuova vita, qualcuno ha pensato a una scelta “facile”, “mollo e vado via”. «Non sono scappato, cercavo una casa per abitare un terreno diverso. Non volevo pescare in quello che già sapevo fare. Mi sono messo a piantare rose e nel mezzo ho accompagnato il mio papà a morire». Per Covid Alessandro ha perso parenti e amici. Non è un caso che «fare i conti con la fragilità vera» è un’espressione che ritorna di frequente nella storia che il prete racconta, un filo conduttore che lega i «tre sguardi che mi hanno cambiato». Il primo risale a quando era infermiere. «C’era una paziente in ematologia, era appena diventata nonna, voleva tornare a casa per vedere il nipotino. Io ero giovanissimo, l’ho trovata di notte in un lago di sangue, sapeva che stava per morire e con gli occhi mi chiedeva “Perché?”». Quindi lo sguardo di un padre somasco, Claudio. «Era il fratello maggiore che avrei voluto avere, mio professore di filosofia, del tutto diverso da me come impostazione, era un tradizionalista. Condividevamo la passione per i film di Nanni Moretti». Era malato di leucemia. «L’ultima volta che l’ho visto era irriconoscibile. Continuava a guardarmi. Nevicava. Ogni volta che vedo la neve sento dentro di me i suoi occhi». E poi lo sguardo di papà Franco, morto per Covid, nel marzo 2020. Era il tempo del cambiamento per il sacerdote. «Eravamo io e lui in ospedale. “Don Alessandro”, mi ha detto, “non posso aiutarti, ma ci sono. Stai facendo qualcosa di coraggioso e nuovo”. E poi mi ha benedetto. Ho avuto la fortuna di potergli dire fino alla fine “ti voglio bene”. Con lui ho imparato a essere padre. Per una vita ho cercato di dare una risposta al dolore, un Dio che potesse rispondere a quello sguardo lì. Con mio padre ho sentito lo scandalo della croce, Dio era lì, in quello sguardo». Nella casa sul monte don Alessandro sa che sta affrontando una tappa di un cammino in divenire. «Sono l’opposto di quello che un tempo avevo in mente. “Semplicemente vivere”, diceva Adriana Zarri. Oggi il mio posto è questo».