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lunedì 07 ottobre 2024
 
Il prete partigiano
 

Don Barbareschi, ribelle in nome della libertà, il bene più prezioso

05/10/2018  Ripubblichiamo un'intervista di tre anni fa al prete partigiano che si schierò contro il fascismo, dopo il conferimento del premio Lazzati. «Sognavamo un’italia diversa, ma questo è un paese che si accontenta di tirare avanti»

Scriveva Primo Levi che ogni tempo ha il suo fascismo. Vero o falso? La risposta arriva da un uomo di 93 anni, un prete milanese, don Giovanni Barbareschi. Ha fatto il partigiano, fu rinchiuso nel carcere di San Vittore, lo torturarono, gli ruppero un braccio, ma non parlò. Fu uno dei tanti protagonisti di quegli anni terribili di guerra, mondiale, certo, ma anche civile per gli italiani. Il 25 aprile, nel giorno del settantesimo anniversario della Liberazione, ha ricevuto dalla Fondazione Ambrosianeum il Premio Lazzati, riconoscimento quadriennale istituito «per indicare ai cristiani e alla società civile esempi di vita e di impegno che possono costituire modelli di cittadinanza attiva e di coerenza con i valori evangelici». Nelle precedenti edizioni il premio è stato attribuito, tra gli altri, a padre David Maria Turoldo, al cardinale Gianfranco Ravasi, a Mario Luzi, al cardinale Carlo Maria Martini.

Don Barbareschi commenta: «Il Premio Lazzati per me è legato al valore delle persone che l’hanno ricevuto prima». Gli chiediamo come vede l’Italia di oggi, rispetto a quella di settant’anni fa, e qui “il prete della libertà” ci riporta a Primo Levi: «L’Italia non è quella che sognavamo». Eppure, oggi abbiamo la libertà, la democrazia... Lui sorride, un po’ amaro nello sguardo: «Libertà? Questo Paese non ama la libertà. Ama l’abitudine, il conservatorismo, ama tirare avanti».

Parole dure di chi, ancora diacono, venne mandato dal cardinale Schuster, nel 1944, a benedire i corpi dei partigiani ammazzati dai nazifascisti a Milano, in piazzale Loreto. «Sognavamo un’Italia diversa, democratica e libera. Sognavamo un’Italia religiosa ma non clericale. Oggi c’è un fascismo strisciante, mediatico. La stampa impone un pensiero, una realtà. Per noi la libertà era un sogno. Oggi contro di noi, contro la libertà, non ci sono di certo i mitra, ma molti limiti, troppi».

Dopo l’8 settembre 1943, don Barbareschi fondò, con uomini di valore come Mario Apollonio, Carlo Bianchi, Dino Del Bo, Teresio Olivelli, il musicologo Claudio Sartori e David Maria Turoldo, un giornale clandestino, e il nome di quella testata dice tutto dell’anelito di libertà che quel gruppo e tanti altri italiani sentivano: Il ribelle. «Bisogna tornare ad amare la libertà, non i miti odierni del successo e del denaro, perché quando si cammina verso un mito si fallisce. Il fascismo sta tornando, ed è un nuovo fascismo. Vuole un esempio? Oggi non si ama più la persona, ma il gruppo, la massa. Non si pensa al bene comune ma a quello privato. Quando vedo nei cortei uomini e donne che urlano sempre gli stessi slogan, penso che alla fine quelle persone vivranno per lo slogan stesso, senza interrogarsi nel profondo. O si vive come si pensa, o si finisce a pensare per come si vive».

C’era un segnale, tra i prigionieri di San Vittore, dopo ogni interrogatorio. Se rientrando in cella alzavano il braccio, voleva dire che non avevano parlato, che non avevano fatto nomi. Don Barbareschi fu torturato e gli ruppero un braccio. Non poteva alzarlo, per lui lo fece la suora che lo riaccompagnò in cella e tutti capirono.

«Il 9 settembre 1943 andai dal cardinale Schuster con il mio amico don Gnocchi. Dissi a Schuster che ero venuto da lui per comunicargli che entravo nella Resistenza, e senza chiedere alcun permesso. Schuster si inginocchiò: “Fate quello che dice la vostra coscienza”. La libertà non si dimostra, ci si crede».

Don Gnocchi lo aveva conosciuto pochi mesi prima, tornava dalla Russia. Divenne suo amico e poi il suo curatore testamentario. Tempi duri, per persone vere: «Quando penso se ho conosciuto tante “persone”, dico che in realtà sono pochissime». Eppure, è importante che la testimonianza del passato passi attraverso le parole di chi ha vissuto quell’epoca tragica: «Ma questo Paese ha la tradizione di sé stesso, non la memoria. Quando consacro alla Messa, Dio dice: “Fate questo in memoria di me”, invitandoci tutti a ripetere e rivivere quella situazione». Lo dice don Barbareschi, uno che afferma, con orgoglio: «Il primo atto di fede non è in Dio, ma nella libertà».

(Pubblicato originariamente il 11/05/2015)

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