Nel cuore di Roma, a pochi passi dal Tevere, c’è uno dei più antichi santuari mariani della capitale, Santa Maria in Campitelli. Sull’altare la venerata icona della Vergine con il bambino. «Per me quella chiesa è il simbolo di un incontro, inaspettato e rimandato tante volte, con il Mistero. A lungo è stata solo una chiesa tra le mille chiese di Roma, poi si è trasformata in altro. Il mio sguardo nel tempo è cambiato, certo, ma sono successi anche tantissimi fatti che l’hanno portata a diventare altro, quell’appuntamento che non trovava casa con la liturgia, quindi con un Dio vivente e a noi contemporaneo». Elisa Fuksas racconta il suo “luogo dell’anima”, quello che «ci parla, che è una voce da ascoltare».
Nata a Roma nel 1981, dopo la laurea in Architettura Elisa si dedica alla scrittura e alla regia: video musicali, documentari, corto e lungometraggi. Nel 2020 pubblica Ama e fai quello che vuoi (Marsilio) in cui racconta la sua esperienza di fede. Lo stesso anno gira il documentario iSola, sulla sua esperienza con la malattia.
C’è un altro luogo dell’anima?
«La natura. Non ho in mente un luogo chiaro, definito. Ma ogni volta che sono di fronte a un grande spettacolo naturale, un tramonto, l’alba, il mare… allora lì è facile riconoscere uno spazio che diventa tempo, ma soprattutto uno spazio che diventa sacro, che non si può trattenere ma solo lasciare andare e contemplare. Mi piace l’impossibilità di possedere questi momenti poetici del mondo, come succede per un quadro importante, e per tutto quello che è essenziale e grandioso».
A 37 anni, dopo essersi convertita, si è fatta battezzare. Può raccontarci di questo suo itinerario verso la fede?
«Il romanzo Ama e fai quello che vuoi racconta i miei due anni da catecumena ed è un romanzo d’avventura. Le ragioni che mi hanno portato a quell’appuntamento, fino a poco prima impensabile, sono tante, consapevoli e inconsapevoli, comprensibili e incomprensibili. La cosa sicura è che a un certo punto, dopo tanti incontri mancati con la religione, ho cercato un senso, un antidoto alla mia ignoranza (avevo rifiutato Dio, senza sapere cosa stavo rifiutando) e un’appartenenza culturale e “umana” (i Vangeli), ma anche una direzione, una tensione al bene. E questo ha a che fare con il mistero più che con la religione, che invece è arrivata dopo. Ma il vero motore della mia scelta (poi si sceglie davvero il Battesimo?) è la paura della fine; certo non credo perché cerco o voglio la consolazione di un “dopo” migliore di ora, anzi ora più che mai non rimando niente a domani. Cerco di vivere di più, con più senso, tutto quello che arriva, che capita, che scelgo. E continuo ovviamente ad avere paura di morire, della fine e dell’entropia del senso… ma un po’ di meno. Ed è in quel “po’”, in quel millesimo di millesimo di millesimo di differenza, che c’è la vera convenienza di questa mia scelta. La religione cattolica basa il proprio calendario sulla Pasqua, che è la vittoria di Gesù sulla morte, sulla fine, sul nulla. Non è un caso che tra tutte le religioni è quella che mi ha parlato con più chiarezza».
Qual è il senso del titolo, da una frase di sant’Agostino?
«Ama e fai quello che vuoi è una frase chiara e misteriosa insieme. Di certo parte da una premessa: la grazia dell’amore. Se partecipiamo a quella grazia anche le nostre azioni saranno migliori e più libere. L’amore e la libertà appaiono così inscindibili. Nel mio romanzo uno dei personaggi mi dice, a proposito di questa frase, “la religione ti può aiutare ma il vero aiuto arriverà quando eserciterai la tua capacità di scelta. Il libero arbitrio. E anche la possibilità di amare. Fino ad allora sarai bloccata in una ridondanza vuota, priva di senso”. Ecco è proprio da questa ridondanza che voglio fuggire e imparare ad amare».
Che importanza hanno gli incontri e, nello specifico, un incontro come quello con Elia, padre spirituale?
«Gli incontri sono i punti cardinali delle storie e della vita. Elia è un giovane prete che nel tempo è diventato un grande amico, confidente, testimone. Gli incontri ci impongono e ci ricordano la presenza dell’altro in tutta la sua potenza e urgenza. Vedere l’altro è la vera sfida. Vincerla significherebbe uscire dall’ossessione di e per sé stessi».
C’è qualche libro che le è stato particolarmente caro e illuminante?
«La Bibbia. E nella Bibbia, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici e il Vangelo di Giovanni. Le parole per me sono l’inizio e la fine di tutto».
In iSola ha raccontato la sua malattia allo scoppio della pandemia e un’amicizia profonda. Come le è venuta in soccorso la fede?
«Era il 2020 quando il caos del mondo è coinciso con il mio caos. E uso caos come sinonimo di malattia. In quella primavera il mondo pareva stesse finendo fuori le finestre e dunque la mia sorte perdeva brutalmente di importanza. Mi spaventava meno stare male perché non mi sentivo più protagonista degli eventi. Quando, poco dopo, la mia migliore amica si è ammalata di linfoma, ho deciso di raccontare con il mio cellulare quei giorni, quella storia, ma soprattutto la sua, perché il racconto è potente e costruisce una distanza tra la vita e noi. Una distanza che a volte aiuta a sopravvivere, ad avere meno paura. La fede non mi ha soccorso perché non ho chiesto soccorso, ma senso. Per me il crocifisso è un sistema cartesiano in cui il nostro destino si muove e disegna una funzione. A volte la sua direzione sembra chiara, a volte indecifrabile. La fede rende le cose indecifrabili “un po’ meno” indecifrabili e quelle invisibili un po’ più visibili».