La strage della funivia del Mottarone (Verbania), in cui 14 persone hanno perso la vita, lasciando un bambino di cinque anni, unico sopravvissuto, senza famiglia, suscita com’è naturale una grande partecipazione emotiva dell’opinione pubblica che, come sempre in questi casi, si concentra sulle indagini in corso, tanto più se come in questo caso vanno verso l’individuazione di profili di responsabilità ben più gravi del semplice incidente causato dall’errore umano. La solidarietà nei confronti delle vittime ignare esposte a un rischio conosciuto e accresciuto dalle condotte umane porta a chiedere l’individuazione rapida di colpevoli e responsabilità. Anche per questo le persone non pratiche di dinamiche di indagini e processi faticano a comprendere la dialettica in corso a Verbania tra Ufficio del Pm che ha fermato tre persone chiedendo la custodia cautelare in carcere, provvedimento che 48 ore dopo il Giudice per le indagini preliminari non ha convalidato, se non per gli arresti domiciliari per uno dei tre, l’unico ad avere ammesso la responsabilità di aver disinserito l’impianto frenante di emergenza della funivia, una scelta sciagurata che combinata alla rottura della fune traente ha avuto conseguenze tragiche.
Come funziona tra Pm e Gip
Per la legge italiana il Pubblico ministero, il magistrato che indaga titolare della funzione requirente, non ha il potere di prendere in proprio provvedimenti che limitano la libertà personale per esigenze cautelari, se non nell’urgenza del fermo che deve essere convalidata da un giudice (Gip) entro 48 ore. La possibilità di mettere in carcere o ai domiciliari per ragioni di cautela in questa fase di indagini preliminari una persona indagata sospettata di un reato (prima del processo e del rinvio a giudizio) è vincolata dalla legge a tre motivazioni (basta che se ne verifichi una soltanto): pericolo di fuga, pericolo che venga commesso nuovamente il reato contestato, pericolo di inquinamento delle prove. In tutti i casi va detto che la legge, riguardo alla custodia cautelare in carcere pone due ulteriori condizioni: il carcere in questa fase deve essere la soluzione ultima: «la custodia cautelare in carcere», si legge nell’articolo 275 del Codice di procedura penale, «può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate». Non solo il giudice che convalida deve disporre di un quadro indiziario a carico del singolo che finisce in custodia cautelare tale per cui possa prevedere che a processo finito a quella persona arrivi una condanna che superi i tre anni, senza sospensione condizionale, perché questo prevede la legge. Diversamente l’Italia rischia di incorrere in condanne a risarcimenti per ingiusta detenzione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
Com'è andata nell'indagine sulla funivia
Sì è verificata una divergenza, significativa, di interpretazione tra Pm e Gip riguardo ai presupposti su cui fondare la custodia cautelare in carcere: il Gip – a dispetto di tante letture politiche e strumentali che ci ripetono all’infinito la vulgata dei giudici “appiattiti” sulle richieste del Pm – ha ritenuto che non ci fossero indizi sufficienti a ritenere fondato il pericolo di fuga (perché va ricordato che la legge al momento non si accontenta di un pericolo di fuga generico, quando viene contestato occorre motivarne la richiesta con elementi a supporto del fatto che il pericolo si anche “attuale”): per questo la custodia cautelare non è stata convalidata per due degli indagati che sono tornati in libertà, mentre è rimasta in piedi la custodia ai domiciliari per Tadini capo servizio dell’impianto della funivia, che però il Gip fonda su un diverso presupposto: non il pericolo di fuga, ma il pericolo di reiterazione del reato. «Una «condotta scellerata», scrive il giudice, «della quale aveva piena consapevolezza, posta in essere in totale spregio della vita umana con una leggerezza sconcertante» (...) per lungo tempo». Cosa che ha convinto il Gip a ritenere che «non abbia la capacità di comprendere la gravità delle proprie condotte e che, trovandosi in analoghe situazioni reiteri con la stessa leggerezza altre condotte talmente pregiudizievoli per la comunità».
CHE COSA SUCCEDERA' ORA
La mancata convalida agisce soltanto sulle misure cautelari, il caposervizio, il gestore Nerini e il direttore tecnico dell’impianto rimangono indagati, le indagini proseguono e la decisione del Gip non influirà sugli sviluppi futuri dell’indagine se non riguardo all’indicazione della necessità di rafforzare il quadro probatorio, che dovrà soprattutto appurare le responsabilità rispetto al freno disabilitato e in particolare se sia possibile che un dipendente abbia preso in autonomia una decisione tanto grave e rischiosa come la disattivazione di dispositivo di sicurezza e quali siano le cause che hanno determinato la rottura del cavo e le ragioni per cui l’eventuale deterioramento sia sfuggito ai controllo, nonché ovviamente valutare i profili di responsabilità in capo alle singole persone, già indagate ed eventualmente ad altre, informate della disattivazione del dispositivo frenante. Com’è nelle regole, l’ordinanza attuale del Gip non avrà alcuna influenza neppure sull’eventuale rinvio a giudizio che seguirà la conclusione delle indagini preliminari, sul quale a tempo debito dovrà decidere un Giudice per l’udienza preliminare, che per ragioni di incompatibilità, dovrà essere diverso da quello che ha disposto riguardo alle misure cautelari.
CHE COSA E' IMPORTANTE CAPIRE
Anche al di là del singolo caso, il vaglio di un giudice che rilevi per tempo le eventuali falle in un quadro probatorio (prove deboli, indizi deboli o inadatti a resistere in giudizio) è una garanzia per gli indagati (a che non si rischi un processo senza prove solide) ma lo è anche per il buon esito di un processo e per l’interesse delle vittime (a che non si rischi l’assoluzione di un colpevole): qualora gravasse, infatti, un sospetto pesantissimo ma le prove raccolte a carico dell’indagato non fossero adatte a reggere al vaglio del processo, il risultato finale sarebbe una assoluzione che se diventasse definitiva sarebbe irrevocabile e porterebbe all’impossibilità di riprocessare la stessa persona per lo stesso reato, neppure nel caso in cui emergessero successivamente nuove schiaccianti prove. Perché, per un principio di civiltà giuridica, la revisione è ammessa soltanto nella direzione più favorevole all’imputato.