Da sinistra: monsignor Adel Zaki, vicario apostolico d’Alessandria d’Egitto, il patriarca copto cattolico Ibrahim Isaac Sedrak e monsignor Bruno Musarò, nunzio apostolico. Foto di Romina Gobbo.
Il Cairo, Egitto
Nostro servizio
Venerdì 18 dicembre è
stato un momento di intensa emozione per i cristiani del Cairo.
Monsignor Adel Zaki, vicario apostolico d’Alessandria d’Egitto,
monsignor Bruno Musarò, nunzio apostolico, e il patriarca copto cattolico Ibrahim Isaac Sedrak, in unione spirituale con papa
Francesco, hanno aperto la Porta Santa della Cattedrale di
Heliopolis, dedicata a Nostra Signora di Fatima.
Monsignor Zaki, che
significato ha per i cristiani egiziani il Giubileo della
misericordia?
«Per noi è un grande
dono, una grazia particolare. Abbiamo bisogno di fare un cammino di
conversione, perché le difficoltà degli anni passati, ci hanno resi
un po’ sfiduciati, ci hanno tolto la speranza. Il Giubileo è un
invito a ritornare alla Casa del Padre. Aprire la Porta Santa in
unione con il Santo Padre, significa riscoprire il volto del
Padre misericordioso. Sono cinquant’anni dal Concilio Vaticano II,
un momento importante di influsso dello Spirito, che ha portato la
Chiesa ad aprirsi al mondo. Con questa visione, la Chiesa viene
ringiovanita. E lo slancio missionario ne è la conseguenza. Noi
dobbiamo riflettere la misericordia del buon samaritano. Dobbiamo
andare verso il mondo, seguendo le necessità, facendo opere di
carità e di misericordia. La Porta Santa non è solo relazione
personale con il Padre misericordioso, è anche testimonianza al
mondo dell’amore del Padre all’uomo. L’uomo di oggi ha tanto
bisogno, di sicurezza, di giustizia e di pace. Per noi, dunque, due
sono i significati: la conversione personale e l’invito a rinnovare
lo slancio missionario, a mostrare il volto del Padre
misericordioso».
Testimoniare con la
propria vita è anche un modo per essere più credibili nei confronti
delle altre religioni, per voi in Egitto nei confronti della
maggioranza musulmana.
«Certo. E poi bisogna
dialogare, instaurare relazioni, vivere assieme. La Chiesa cattolica
è molto radicata qui, grazie alle sue scuole, alle sue strutture
medico-sanitarie e culturali, frequentate da cristiani e musulmani
indistintamente. L’importante è cercare sempre di vedere con gli
occhi del cuore, non facendo memoria del passato, perché spesso
questa memoria è ferita, annerita da ricordi negativi. Invece, serve
un cuore aperto, seguendo l’esempio del Padre celeste, che è
aperto a tutti. Già Giovanni Paolo II, in occasione del Giubileo del
2000, aveva detto che è necessario purificare la memoria. Anche noi,
varcando la Porta Santa, vogliamo fare questa purificazione,
chiedendo un cuore misericordioso, rigettando la vendetta.
Misericordia, tenerezza, compassione: sono tutti aspetti di un cuore
che si è convertito, perché ha incontrato la misericordia del
Padre. Spinti da questo spirito, vogliamo essere strumenti di pace».
Come reagisce il cristiano
egiziano al terrorismo e agli attentati, che hanno toccato anche il vostro Paese?
«Daesh e gli altri gruppi
terroristici vogliono mettere paura nei nostri animi. Ma noi dobbiamo
essere fiduciosi. Dobbiamo essere la via della speranza, perché
forti della grazia del Signore che si è incarnato nella vita».
Come va il dialogo
ecumenico?
«In Egitto i cristiani
sono il 10%, e la maggioranza appartiene alla Chiesa copta. La
comunità cattolica (250.000 persone) è composta da ben sette riti:
copto-cattolico, latino, melchita, siriaco, caldeo, armeno e
greco-cattolico, ma c’è grande collaborazione tra di noi, ci
incontriamo spesso. Tutti facciamo parte dell’Assemblea dei
patriarchi e vescovi cattolici, che è testimonianza reale di
un’unica Chiesa. Quando l’Assemblea parla, lo fa a nome di
tutti».
La Porta Santa della cattedrale di Heliopolis, al Cairo.
Si sente la
secolarizzazione da voi?
«C’è una corrente
molto ostile a qualsiasi religione. E’ una corrente che nega Dio,
si presenta come autonoma, indipendente, consumista. Il suo messaggio
è che si vive meglio senza religione, e si rivolge in particolare al
mondo giovanile. Il terrorismo è ad essa funzionale, perché i
giovani dicono: “Se in nome di Dio si uccide, allora meglio non
averlo un Dio”, e rifiutano la religione. Bisogna che la Chiesa, la
società, le autorità chiariscano che cos’è l’Islam, spieghino
che non bisogna confonderlo con il terrorismo. D’altra parte, la
situazione negativa in cui vivono i nostri giovani, dal punto di
vista occupazionale, per cui fanno fatica a vedere un futuro, fa sì
che alcuni di loro siano attirati dal fondamentalismo».
Ci sono vocazioni, in Egitto?
«Qui, grazie a Dio,
qualche vocazione ancora c’è, sia sacerdoti, che religiosi e
religiose. Però dobbiamo fare attenzione, perché la crisi sta
arrivando anche da noi».
C’è discriminazione nei
confronti dei cristiani?
«Stiamo vivendo tempi
migliori che in passato. Per il nuovo Parlamento sono stati eletti 37
cristiani copti; non era mai successo nella storia dell’Egitto (ai
tempi del presidente Mubarak, i copti eletti nel parlamento egiziano
furono al massimo nove; nel Parlamento del 2012, dominato dai
Fratelli Musulmani, i copti erano sette, ndr). Il nuovo presidente
ci dà speranza, nutriamo per lui stima e affetto. E’ un uomo che
ama il Paese, e assicura di voler trovare una soluzione ai mali della società
egiziana. Purtroppo, deve ancora lottare molto contro le correnti
tradizionaliste. Il cambiamento avverrà, ma piano piano. Al-Sisi ha
preso in mano un Paese moribondo, a livello economico, ma anche
politico, culturale… Perciò, non può fare miracoli in breve
tempo. Sarà un cammino lungo; richiede tempo e solidarietà».