E' il 16 agosto 1972. Sotto il sole abbacinante di mezzogiorno, proprio davanti alla spiaggia di Riace, in località Forticchio, a trecento metri circa dalla riva, Stefano Mariottini, un chimico romano appassionato di pesca subacquea, si è immerso in apnea a 6 metri di profondità con il suo fucile a molla. «Cercavo scogli isolati dove il pesce non fosse disturbato. Ne ho trovato un gruppo quasi circolare con al centro della sabbia. L’acqua era limpida, quasi trasparente». Vengono scoperti così i Bronzi di Riace, i due grandi capolavori della Magna Grecia che oggi riposano al Museo di Reggio Calabria. E’ da qui che dobbiamo partire per raccontarne la storia.
Come tutti i grandi porti del Mediterraneo la città calabrese ti morde subito con il suo caos brulicante e luminoso di traffico e di vita. La città ionica dello Stretto, l’antica Rhegion fondata da coloni calcidesi, ospita uno dei gioielli d’Italia: il Museo Archeologico di Reggio Calabria. Recentemente è stato risistemato da cima a fondo. Le sue sale ospitano una collezione di oggetti d’arte e reperti della Magna Grecia unica al mondo. Dal suo terrazzo si può ammirare il mare, quel lembo di cobalto spesso agitato dai venti e dalle correnti che unisce lo Stivale alla Sicilia.
Per arrivarci si può parcheggiare l’auto nel traffico impazzito del mattino, in via Saverio Vollaro, su una specie di collina d’asfalto e arrampicarsi a piedi fino all’entrata dell’edificio in stile Ventennio progettato dal Piacentini, in Piazza De Nava. L’esperienza quasi mistica della visione dei Bronzi è accentuata dall’anticamera di venti minuti nella sala “pre-filtro” e dai tre minuti di permanenza nella “sala filtro” che tutti i visitatori devono fare per togliere le impurità agli indumenti, quelle impurità che andrebbero a rovinare il fragile metallo bimillenario delle due statue. Quando le porte automatiche si aprono l’impatto è stupefacente. E’ questa la “sindrome dei Bronzi?”, quella sorta di sindrome di Stendhal che prendeva le folle durante la prima esposizione di Firenze, all’inizio degli anni 80? Il primo ad accoglierci in tutta la sua possente bellezza è il “Giovane” come è stato ribattezzata la prima statua, quella del guerriero dalla chioma riccioluta e dalla barba maestosa. A pochi passi ecco il “Vecchio”, quasi sicuramente uno stratego, un generale dell’Antica Grecia, che si staglia con il suo metro e novantotto (il Giovane è di un centimetro più basso) su un piedistallo antisismico. Alcuni studiosi si sono spinti a ipotizzare che “il Vecchio” sia nientemeno che Milziade, della nobile famiglia dei Filaidi, l’eroe della battaglia della piana di Maratona che nel 480 avanti Cristo sconfisse l’esercito di 20 mila uomini al comando di Artaferne e Dati, durante la Prima guerra persiana, il primo scontro di civiltà tra Occidente e Oriente. Quello scontro che perfino per gli Inglesi è più importante della battaglia di Hastings, poiché, come scrisse John Stuart Mill, se l’esito fosse stato differente, noi occidentali vagheremmo ancora nella boscaglia aggrappati ai rami degli alberi.
Altri, all’opposto, hanno immaginato il “Vecchio” un guerriero tracio, e dunque “barbaro”, come l’esercito che sfidò gli ateniesi nell’epopea raccontata da Erodoto. I basamenti delle due statue, pesanti poco più di una tonnellata e mezzo, sono sensibilissimi alle sollecitazioni, bastano due dita per farli agitare. Al loro interno quattro sfere di marmo assorbono qualunque smottamento orizzontale, come avviene durante un sisma. Il sofisticatissimo congegno è stato messo a punto nei laboratori dell’Enea, simulando dei finti terremoti. Come è noto, Reggio è una zona molto attiva dal punto di vista sismico. Il pensiero corre al terremoto e al conseguente tsunami del 1908 che la devastò insieme a Messina. Fu un’ecatombe biblica, la più grande catastrofe naturale d’Europa a memoria d’uomo, durante la quale morirono dalle 90 mila alle 120 mila persone, la metà degli abitanti di Messina e un terzo di quelli di Reggio. Solo i mattatoi delle due Guerre Mondiali avrebbero fatto più vittime (l’uomo è certamente più devastante dei terremoti). Le due città sorgono sopra una gigantesca faglia, quella che divide la placca africana da quella euroasiatica, una zona ad altissimo rischio sismico. Mi chiedo perché il sistema antisismico delle statue dei bronzi non possa essere applicato a tutte le case della regione, perché in fondo anche l’ultimo degli uomini vale più di una statua, per quanto meravigliosa possa essere. Lo sguardo dei Bronzi fissa l’orizzonte, con il suo carico di misteri insoluti. La muscolatura, la naturalezza, i movimenti morbidi, la prestanza e la postura, mirabilmente plastiche, riflettono una calma titanica. Qualcuno ha voluto individuare quell’espressione forte e allo stesso tempo pacata dei due strateghi con quella virtù e quella profondità d’animo che erano tipiche del pensiero greco, condensate in una crasi, la kalokagathia, connubio delle due parole “bello” e “buono”, l’ideale aristocratico di perfezione fisica e morale dell’uomo. Il realismo anatomico dello scultore arriva a riprodurre i riccioli della barba, i denti visibili tra le labbra appena dischiuse, le cornee in calcite, fino alle vene del corpo. Per ritrovare capolavori altrettanto mirabili dobbiamo risalire al Rinascimento, con Donatello e Michelangelo: perché non parlate, Bronzi?
Nel cercare di individuare la mano che ha scolpito questi due gioielli della storia dell’arte gli studiosi hanno fatto i nomi dei massimi scultori dell’epoca: da Pitagora di Reggio ad Argelao di Argo, da Mirone ad Alcamene, da Policleto di Argo, massimo esponente della scuola del Peloponneso fino addirittura a Fidia, lo scultore legato a Pericle, il più importante del periodo classico, autore del progetto dell’Acropoli e della statua crisoelefantina di Atena, in oro e avorio, posta all’interno del Partenone. Nonostante siano stati sottoposti agli esami termici, chimici, geologici e perfino “medici” più sofisticati e moderni, dalla Tac al carbonio 14, sappiamo poco o nulla di questi due uomini e della nave che li trasportava, del cui relitto non c’è traccia. Come sono finiti in fondo al mare? Si è trattato di una tempesta, di un naufragio? Sono state gettate in mare per alleggerire l’imbarcazione in preda ai vortici e alle onde? Da dove venivano? Da uno dei grandi centri coloniali della Magna Grecia come Posidonia, Corcira (l’attuale Corfù), l’achea Crotone, o forse Taranto, la colonia spartana? O il viaggio dei Bronzi è partito dalla Grecia, da una delle città del Peloponneso, dalle grandi “poleis” marinare di Corinto o addirittura di Atene, la maestosa città “prostrates”, ovvero guida, della Lega Delio-Attica? Gli studiosi hanno riconosciuto in quelle statue di bronzo due originali greci del Quinto secolo avanti Cristo, la cosiddetta “età classica”, creati con il metodo della cosiddetta fusione a cera persa. Per avere un’idea di quanto questa tecnica sia complicata e complessa, ai limiti della disperazione, basterà rileggere la sofferta creazione del Perseo di Benvenuto Cellini, che quasi lo manda al creatore, raccontata nella Vita scritta da lui medesimo. L’artista modella la statua in cera sovrapponendola a un altro modello in creta, poi la ricopre di argilla e la cuoce per farne uno stampo, fa uscire la cera dagli sfiatatoi e infine fa colare dentro lo stampo il bronzo fuso. Più facile a dirsi che a farsi: durante la lavorazione del Perseo successe di tutto, si incendiò perfino il tetto della casa.
I due guerrieri greci hanno un’età differente: il “Vecchio”, il sospetto Milziade, è più giovane di 30 anni rispetto al primo. Secondo le ultime indagini si può dire con sufficiente approssimazione che siano stati prodotti in Grecia, in Attica o nell’Argolide, probabilmente da due scultori distinti: il Giovane, secondo alcuni studiosi, va riferito allo stile detto Severo e sarebbe opera di Ageladas di Argo, il Vecchio, che risente della scuola detta Classica sarebbe riconducibile a Policleto, allievo di bottega di Ageladas e autore di quel Canone che definiva le proporzioni geometriche della bellezza dell’arte. Secondo altri dietro il Giovane c’è addirittura la mano di Fidia e dietro il Vecchio quella del suo allievo Alcamene di Lemno, l’isola ateniese colonia di Atene. Come abbiamo già detto il loro fascino deriva anche dalle innumerevoli domande che si portano dietro. Un mistero cominciato fin dal giorno del loro ritrovamento.
Torniamo a Stefano Mariottini e a quel 16 agosto del 1972. Dal fondale di sabbia del litorale Calabrese, tra Monasterace e Riace, immerso alla ricerca di pesci nell’acqua cristallina dello Jonio, il sub vede affiorare la spalla sinistra di una delle due statue, quella del “Vecchio”. L’anatomia di quella spalla verdastra è talmente realistica che Mariottini pensa spaventato che sia il braccio di un cadavere, poi si accorge toccandola che è di metallo. Fa la capriola e risale in superficie per riprendere fiato, poi inizia a fare su e giù in apnea e scopre i due possenti guerrieri rimasti sepolti per millenni. «Ho visto che era una statua intera sepolta nel fondale marino con il lato destro leggermente girato verso il fondo. Ho visto i capelli, la benda sul viso coperto di concrezioni, sassolini e sabbia». Possiamo immaginare l’eccitazione di Mariottini, l’adrenalina che sale man mano che spolvera la sabbia marina e scopre quel capolavoro. Il sommozzatore si guarda intorno fissando il fondo. A pochi metri ecco l’altro Bronzo: ne scorge inizialmente il ginocchio e l’alluce, poi a poco a poco la figura intera. «Era supino, coperto da qualche centimetro di sabbia. In un attimo l’ho visto, dalla testa ai piedi, in tutto il suo splendore. La muscolatura, i particolari delle ciglia e le palpebre fatte con i filetti di bronzo».
Tornato a riva, il chimico appassionato di pesca subacquea telefona alla Sovrintendenza archeologica di Reggio Calabria, ma è il giorno dopo Ferragosto e non risponde nessuno. Allora decide di chiamare direttamente a casa sua l’incredulo sovrintendente dell’epoca Giuseppe Foti all’ora di cena. Foti a verbale annota di essere stato avvertito alle ore 21 del 16 agosto 1972. Lo invita al Museo per formalizzare il ritrovamento, attraverso un documento scritto con la macchina per scrivere. Mariottini sporge anche denuncia ai Carabinieri.
Da quel momento il ritrovamento si porterà dietro per anni una scia di polemiche. C’è chi sospetta che siano stati prima quattro ragazzini di Riace a chiamare nel tardo pomeriggio la guardia di finanza, quel 16 agosto. Qualcuno dice pure che accanto alle due statue ci fossero anche i rispettivi elmi e gli scudi di legno, a completamento della panoplia, l’apparato delle armi dei due antichi strateghi. A Reggio Calabria è nata perfino la diceria che i Bronzi siano addirittura tre e che il terzo sia stato trafugato da una mano ignota per finire, di ricettatore e di ricettatore, nella collezione privata di qualche antiquario o nel salotto di qualche boss della ‘ndrangheta. Altri dicono che i bronzi siano addirittura sette. Secondo gli studiosi infatti le due statue ritrovate potrebbero rappresentare Tideo e Anfiarao, due dei Sette contro Tebe, la tragedia di Eschilo rappresentata alle Dionisie di Atene nel 467 avanti Cristo, che narra del tentativo dei guerrieri di Polinice di reimpossessarsi del potere della città contro il fratello Eteocle. Dunque sul fondale marino, o in casa di qualche collezionista, ne rimarrebbero altre cinque. Un’ipotesi che gli investigatori hanno ritenuto molto aleatoria. Ad ogni modo una sentenza della Cassazione dà definitivamente ragione a Mariottini: è lui lo scopritore dei Bronzi di Riace, uno dei più straordinari ritrovamenti archeologici del XX secolo. Il 21 agosto 1972, cinque giorni la scoperta di Mariottini, i Carabinieri sommozzatori del nucleo di Messina e gli uomini della Soprintendenza archeologica di Reggio Calabria s’immergono nell’area in cui sono state individuati i Bronzi. Sono a trecento metri dalla costa, a otto metri di profondità. I sommozzatori assicurano le due statue a dei palloni gonfiati con le bombole e a poco a poco i due Bronzi (del peso di circa 400 chili ciascuno per via del fardello di incrostazioni di vari materiali) risalgono in superficie. Ad attenderli c’è una piccola folla sulla spiaggia. Guardo le foto dell’epoca, ancora in bianco e nero o a colori ormai sbiaditi, i bronzi portati su una sorta di letto di gommapiuma verso la riva, circondati da una folla eccitata, che armeggia intorno alle statue, i carabinieri in divisa estiva, uno spilungone barbuto in costume da bagno presente praticamente in tutte le foto.
Immediato l’accostamento su quei “gemelli diversi” ai santi Cosma a Damiano, i due fratelli medici morti sotto l’impero di Diocleziano. Gli anziani del posto la ritengono la profanazione del sito che nella credenza popolare era dedicato ai due santi. Proprio davanti al luogo in cui si sono ritrovate le due statue, detto lo “Scoglio dei Santi”, i pellegrini di Riace approdano in processione ogni anno con le reliquie di Cosma e Damiano, protettori di Riace. I due martiri cristiani, di origine orientale (nati nella seconda metà del III secolo avanti Cristo) sono venerati come santi medici taumaturghi, capaci di guarire qualunque malattia. Il culto dei due santi si lega al processo di ellenizzazione del Meridione, quando la lingua, la cultura, la religione e l’arte bizantina plasmarono la Calabria. Il monastero di San Giovanni Vecchio di Bivongi, dove Lucano e i suoi amici andavano a parlare con il monaco ortodosso, sorge sull’area che fu meta dell’eremitaggio di monaci orientali. A ciò si ricollega la leggenda popolare dei due santi medici, che avrebbero chiesto agli abitanti del paese l’edificazione di una chiesa a loro dedicata. Il raccconto cela un nucleo di verità: nei due personaggi della leggenda vanno riconosciuti due monaci orientali alla ricerca di un eremo. La festa del 24, 25, 26 e 27 settembre dedicata ai due santi è radicata e vissuta con tale entusiasmo che viene celebrata anche a Santena, la colonia torinese di Riace, ma anche a Buenos Aires e a New York. Le loro statue, affiancate sull’altare, sono conservate nel santuario di Riace, nel centro del borgo. Hanno in mano una siringa e uno dei due reca una borsa da medico con dei medicinali. Nella loro venerazione c’è qualcosa di gioioso, una sorta di felicità interna che accende gli animi dei pellegrini. La “discesa dei Santi”, ovvero la loro traslazione dall’altare alla portantina della processione, è salutata da applausi, scampanii, canti, musica per banda.
Cosma e Damiano vengono portati in trionfo tra due ali di folla, in una Riace assediata dai pellegrini, che per l’occasione giungono da tutta la Calabria. I due Santi erano in grado di operare prodigiose "guarigioni" e “miracoli”, e la loro azione era completamente gratuita nei confronti di tutti, (da qui l'appellativo “anàrgiri”, dal greco anargyroi, senza denaro). Grazie a questa fama, i due diventarono tradizionalmente santi protettori dei medici e dei farmacisti. Uno dei loro più celebri miracoli, tramandati dalla tradizione, fu quello di aver sostituito la gamba ulcerata di un loro paziente con quella di un etiope morto di recente. Durante le persecuzioni dei cristiani promosse da Diocleziano furono fatti arrestare dal prefetto di Cilicia, Lisia. Avrebbero quindi subito un feroce martirio, così atroce che su alcuni martirologi è scritto che essi furono martiri cinque volte. Secondo alcune fonti furono dapprima lapidati, ma le pietre rimbalzarono contro i soldati; secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male; altre fonti ancora narrano che furono gettati in mare da un alto dirupo con un macigno appeso al collo, ma i legacci si sciolsero e i fratelli riuscirono a salvarsi, e ancora, incatenati e messi in una fornace ardente, senza venire bruciati. Furono quindi decapitati, assieme ai loro discepoli.
Il loro culto d iniziò subito dopo loro la morte, con dedicazioni di monasteri e santuari a Costantinopoli, in Asia Minore, in Bulgaria, in Grecia, a Gerusalemme. La loro fama è giunta rapida in Occidente, partendo da Roma, con l’oratorio dedicato loro da papa Simmaco e con la basilica voluta da Felice IV.
I festeggiamenti nel Santuario di Riace (Reggio Calabria) si fanno risalire al 1669, quando le reliquie di san Cosma furono portate da Roma. I due furono istituiti Santi Patroni di Riace nel 1734. Festeggiati due volte l'anno, nella festa di maggio e di settembre. Nella prima occasione le reliquie dei Santi vengono portate in processione al "castedu". Una teca d'argento a forma di braccio viene trasportata lungo un itinerario campestre attraverso i sentieri della campagna, dalla Chiesa Matrice fino a raggiunge la spiaggia di Riace Marina. Una volta giunti sulla spiaggia, la teca viene imbarcata e portata nei pressi di uno scoglio dove la tradizione racconta che sia rimasta l'impronta del piede di San Cosimo, dopo la traversata a nuoto dall'Arabia. La "festa di settembre", come detto, coinvolge l’intera regione. Molti giungono al Santuario, a piedi, ed è considerata unica nel suo genere per la grande partecipazione dei devoti Rom e Sinti della Calabria che vengono a venerare i Santi Cosma e Damiano insieme al Beato Zeffirino martire, di cui si conserva una effigie nel Santuario. Le statue dei Santi medici sono portate in processione dalla Chiesa Matrice al Santuario per poi ritornare in paese al termine delle tre giornate.
I pellegrini pregano, cantano e portano doni sia per le grazie ricevute, sia nella speranza che i Santi medici accolgano le loro preghiere. Alcuni devoti trascorrono la notte nella Chiesa matrice, perpetuando così l'antico rito dell'incubatio. Altri ballano tarantelle fino a notte, in mezzo alle bancarelle, fino alla “masculiata” finale dei fuochi d’artificio. Il parroco don Giovanni, al termine della festa, raccomanda le anime dei malati rimasti a casa, implorando pietà e misericordia. Una raccolta di fondi aiuterà a restaurare le strutture della Chiesa e della Casa del pellegrino e del migrante. Cosma e Damiano hanno fatto ancora una volta il miracolo della solidarietà.
La partecipazione intensa delle comunità Rom e Sinti della Calabria differenzia in modo sostanziale il culto praticato a Riace da quello praticato ai due Santi in molti altri luoghi d'Italia. Si tratta del più grande raduno religioso di questa comunità, principale protagonista di questa straordinaria manifestazione di religiosità popolare. Per me che vengo da Milano, la cosa suona quasi irreale, da noi i rom fanno notizia solo per gli incidenti, la cronaca nera e per i numerosi sgomberi cui sono stati ripetutamente sottoposti. Questa è la Calabria, terra di accoglienza, di popoli e razze che convivono e ballano insieme al ritmo della tarantella. Si capisce la ritrosia dei vecchi della zona verso il ripescaggio di quelle due statue. Ma al di là della superstizione, resta una straordinario afflato di pietà popolare per quei due Santi, che si traduce in misericordia e in opere. Per la verità non tutti vogliono che i Bronzi vengano rigettati a mare. La maggior parte della popolazione vuole che restino a Riace.
Il giorno dopo il ritrovamento le due statue imbottite di gommapiuma vengono caricate su un camion scortato dai carabinieri. Il sindaco di Riace di allora, Giuseppe Zurzolo, cerca di bloccare la partenza insieme alla popolazione mettendosi davanti al camion ma viene persuaso da carabinieri e finanzieri a lasciar partire l’automezzo.
Quando arriva a Reggio, il soprintendente Giuseppe Foti e i suoi collaboratori si rendono subito conto di aver recuperato due capolavori assoluti dell’arte greca. Insieme con le statue verranno rinvenuti anche 28 anelli di piombo, forse appartenenti alla velatura della nave, e un frammento di legno che potrebbe essere appartenuto al fasciame dell’imbarcazione colata a picco (ma come abbiamo già detto gli studiosi fanno anche l’ipotesi che il carico sia stato deliberatamente gettato in mare per rendere il vascello più leggero durante la tempesta).
Nel 1975 i bronzi, ribattezzati A e B dagli esperti, vengono portati ai laboratori del Centro di Restauri della Soprintendenza di Firenze. Ci vorranno anni di sofisticati restauri per rimuovere i depositi silicei e calcarei di duemila anni e riportare i Bronzi al loro attuale e possente splendore. I Bronzi finiscono per conquistare anche gli italiani. Nel 1980 una mostra allestita a Firenze in occasione della fine dei lavori di restauro ottiene un clamore mediatico e un successo di pubblico planetario, con file folli per visitarli. L’affluenza non fu propiziata da alcuna campagna pubblicitaria o di marketing. Semplicemente i Bronzi piacciono. “Sbigottiti e increduli, gli archeologi in genere tacquero giungendo persino a incolpare i mass media di un successo che non riuscivano a capire, perché sfuggiva alla loro routine accademica”, scriverà Salvatore Settis. Lo stesso bagno di folla avviene nel 1981, con la loro esposizione a Roma voluta dal presidente Pertini, addirittura al Quirinale. Il mito di questi due presunti strateghi si basa anche sul rapporto forte e diretto che si instaura tra visitatore e statue, senza alcuna mediazione, dettato solo dalla meraviglia e dallo stupore.
Poi i Bronzi, ormai divenuti campioni nazionali, ripartono per Reggio, qui al Museo Archeologico, dove troveranno la loro dimora definitiva. Sono ormai simboli riconosciuti dell’arte italiana, popolarissimi, celebrate dai media, oggetto di fenomeni di massa e di studi sociologici. Si portano più domande della Gioconda e questo li rende un mito postmoderno. Si può dire che siano in qualche modo delle autentiche icone pop, un biglietto da visita dell’Italia delle Belle Arti in tutto il mondo. Chissà forse Marcel Duchamp avrebbe preso una statuetta e ci avrebbe messo sopra una bombetta, facendone un “ready made”, come fece con una cartolina della Gioconda, cui appose dei baffetti a manubrio. Del resto Gerald Bruneau nel 2014 ebbe il permesso di sistemare un velo da sposa e un boa coloro fucsia attorno alla statua A, attirandosi gli strali di quasi tutto il mondo della critica d’arte. Non sono pochi coloro che dopo averli visti vogliono visitare i luoghi dove sono stati rinvenuti, i luoghi di quel piccolo Comune, Riace, il cui nome è legato indissolubilmente ai Bronzi. Molte delle domande che suscitano non hanno ancora una risposta, e forse non ce l’avranno mai, ma è proprio questo il fascino ammaliatore dei Bronzi, il fascino di mistero che si porta un passato di civiltà grandiosa, di cui i romani con il loro Impero rimasero vittime, come in una sorta di incantesimo, malati come furono di ellenismo. E forse durante il trasferimento dall’Argolide o dall’Attica a Roma che il vascello fece naufragio, nei primi secoli dopo Cristo. Ma anche questa è solo un’ipotesi. La Calabria è una terra protetta da Dio. E i bronzi ormai sono i loro degni figli, simbolo di una memoria magnogreca che resterà per sempre.