Un fantasma si aggira nell’universo mediatico da qualche tempo: è il mito della trasparenza assoluta, invocata nei troppi episodi di corruzione, di violenza sui minori, d’ingiustizia, di prevaricazione, che popolano sui nostri monitor e sulle pagine dei nostri mezzi d’informazione. E l’incubo di questo mito mi fa venire in mente, oltre gli scontati riferimenti a Orwell e al “grande fratello”, un romanzo, diventato anche un film e pubblicato in Italia nel 2014 dalla Mondadori, intitolato Il cerchio, che ha come autore Dave Eggers.
La protagonista Mae Holland esclama di trovarsi “in paradiso”, allorché mette piede, grazie alla sua amica Annie, in un’azienda, leader nella gestione di informazioni sul web, che proclama la trasparenza assoluta dei suoi dipendenti, reclamandola per tutti, in particolare per i politici. Del resto, per lei, “la vita fuori dal Cerchio non è che un miraggio sfocato e privo di fascino”. Ma “se crolla la barriera tra pubblico e privato non crolla forse anche la barriera che ci protegge dai totalitarismi?”. Sarà il coma profondo di Annie a rivelare il limite posto alla conoscenza umana, di fronte all’insondabile mistero della coscienza: “guardò l’amica, il suo viso immutabile, la sua pelle lucente, il tubo nervato che le usciva dalla bocca. Aveva l’aspetto meravigliosamente sereno di chi è immerso in un sonno riposante, e per un attimo Mae sentì il morso dell’invidia. I medici avevano detto che probabilmente stava sognando, durante il coma avevano accertato una costante attività cerebrale, ma cosa succedesse esattamente nella sua mente era ignoto a tutti, e Mae non poteva fare a meno di provare un certo fastidio”.
Questo non sapere della scienza ci pone di fronte al mistero della vita e ci impone di non staccare la spina, perché non abbiamo accesso al livello di coscienza più profondo di una persona, anche qualora si trovasse a vivere nel cosiddetto “stato vegetativo” (orribile espressione, quando applicata alla vita umana), il che nulla ha a che vedere con l’accanimento terapeutico.
Stiamo perdendo o già abbiamo irrimediabilmente perduto il senso del “mistero” della persona umana, senso che resta latente e nascosto, così come il mistero di Dio (latens Deitas), che adoriamo nel sacramento e di cui riconosciamo le tracce nella natura e nell’animo umano. E se è anche vero che quidquid latet apparebit (ciò che è latente si manifesterà), questo accadrà alla fine dei tempi. Una fine che siamo chiamati anche ad anticipare, ma col perenne atteggiamento del rispetto e del pudore verso il mistero, nella consapevolezza che il giudizio umano è sempre tale e non può mai pretendere di sostituirsi al giudizio divino.
L’esposizione mediatica, la gogna come suol dirsi, anche del colpevole di efferati delitti (che vanno giustamente perseguiti a norma di legge), non può appartenere alla “grammatica dell’umano”, da più parti invocata, ma sempre più spesso disattesa. Così come non può rappresentare l’umano il mito della trasparenza assoluta. Lo ha ben compreso la sapienza della Chiesa, che affida la riconciliazione alla prassi della confessione auricolare, custodendola col segreto, che un prete deve osservare anche a costo della vita (vedi una delle motivazioni che si adducono per il martirio di san Giovanni Nepomuceno). La predicazione, la catechesi, l’annuncio dell’Evangelo oggi non possono pertanto prescindere dal richiamo al mistero di quel “tabernacolo” che è in noi e che si chiama “coscienza, inaccessibile a tutti, se non a Dio stesso.