A ventiquattr’ore dall’attacco di Hamas a Israele e dalla riposta dello Stato ebraico, arriva l’appello di papa Francesco all’Angelus: «Seguo con apprensione e dolore quanto sta avvenendo in Israele, dove la violenza è esplosa ancora più ferocemente provocando centinaia di morti e feriti», ha detto, «gli attacchi di armi si fermino, per favore e si comprenda che il terrorismo e la guerra non portano ad alcuna soluzione, ma solo alla morte di tanti innocenti. La guerra è una sconfitta, è sempre una sconfitta. Preghiamo perché ci sia la pace in Israele e in Palestina. Esprimo la mia vicinanza alle famiglie delle vittime. Prego per loro e per tutti coloro che stanno vivendo ore di terrore e di angoscia».
Poi il Pontefice ha invitato a pregare la Vergine Maria per il dono della pace: «In questo mese di ottobre, dedicato oltre alle missioni e alla preghiera del Rosario, non stanchiamoci di invocare, per l'intercessione di Maria, il dono della pace su tanti Paesi del mondo segnati da guerre e da conflitti. E continuiamo a ricordare la cara Ucraina, che ogni giorno soffre tanto, da martoriata». E ha ricordato il Sinodo in corso in Vaticano da mercoledì per «ringraziare quanti lo stanno seguendo, e soprattutto accompagnando con la preghiera. Il Sinodo», ha spiegato, «è un evento ecclesiale di ascolto, condivisione, comunione fraterna nello spirito. Invito tutti ad affidarne i lavori allo Spirito Santo».
Prima della preghiera mariana, Bergoglio si sofferma sul Vangelo di questa domenica commentando la parabola dei vignaioli omicidi nel Vangelo di Matteo. Quando l’uomo «si illude di farsi da sé e dimentica la gratitudine», dimentica «che il bene viene dalla grazia di Dio, dal suo dono gratuito», pensa «di non aver bisogno né di amore, né di salvezza» ma di «avere qualcosa in più degli altri, di emergere sugli altri». Così nascono insoddisfazioni e invidie, che possono portare violenza, perché «l’ingratitudine genera violenza, mentre un semplice ‘grazie’ può riportare la pace». Chiediamoci se questa piccola parola, “grazie”, e anche "permesso" e "perdono", le basi della convivenza, «sono presenti nella nostra vita».
Il Papa definisce la parabola “drammatica, con un epilogo triste”: il padrone di un terreno vi pianta una vigna e dovendo partire, la affida a dei contadini. Al momento della vendemmia, manda i suoi servi a ritirare il raccolto, ma i vignaioli «li maltrattano e li uccidono; allora il padrone manda suo figlio, e quelli uccidono perfino lui. Come mai? Che cosa è andato storto?» si chiede Francesco.
«Il padrone fa tutto bene, con amore» sottolinea, dà in affitto «il suo bene prezioso» e tratta gli agricoltori «in modo equo, perché la vigna sia ben coltivata e porti frutto». Ma la vendemmia non si conclude felicemente perché «nella mente dei contadini si sono insinuati pensieri ingrati e avidi», perché «alla radice dei conflitti c’è sempre qualche ingratitudine e pensieri avidi, di possedere presto le cose. Non abbiamo bisogno di dare nulla al padrone - dicono tra di loro i vignaioli - Il prodotto del nostro lavoro è solo nostro. Non dobbiamo rendere conto a nessuno».
E questo, sottolinea il Pontefice, non è vero: «Dovrebbero essere riconoscenti per quanto hanno ricevuto e per come sono stati trattati. Invece l’ingratitudine alimenta l’avidità e cresce in loro un progressivo senso di ribellione, che li porta a vedere la realtà in modo distorto, a sentirsi in credito anziché in debito con il padrone che aveva dato loro da lavorare». Uccidono anche il figlio del padrone, dicendo «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità».
Diventano così assassini, un processo che «tante volte succede nel cuore della gente, persino nel nostro cuore».
Con questa parabola, commenta Francesco, «Gesù ci ricorda cosa succede quando l’uomo si illude di farsi da sé e dimentica la gratitudine, dimentica la realtà fondamentale della vita: che il bene viene dalla grazia di Dio, dal suo dono gratuito. Quando si scorda questo, si finisce col vivere la propria condizione e il proprio limite non più con la gioia di sentirsi amati e salvati, ma con la triste illusione di non aver bisogno né di amore, né di salvezza. Si smette di lasciarsi voler bene e ci si ritrova prigionieri della propria avidità, del bisogno di avere qualcosa in più degli altri, del voler emergere sugli altri».