Cari amici lettori, il 29 ottobre si è conclusa a Roma la prima sessione del Sinodo sulla sinodalità. A pagina 20 pubblichiamo una interessante intervista a padre Timothy Radcliffe, che è stato animatore spirituale dell’assemblea: un personaggio d’eccezione per esperienza e saggezza. Ho avuto occasione di ascoltarlo a una conferenza: mi ha impressionato la sua abilità di esposizione semplice e profonda, ma soprattutto la capacità di mettersi al livello degli interlocutori, accogliendo ogni domanda, anche la più complessa o scabrosa, senza scomporsi, sempre col sorriso e un’attenzione umile a ogni persona che lo interrogava.
Al termine di questa prima tappa del Sinodo (l’ultima sarà a ottobre 2024), forse molti si chiederanno: ma a noi, che viviamo in situazioni di Chiesa più “modeste”, a che cosa serve il Sinodo? Ha riflettuto su questo tema il gesuita Thomas Reese, già caporedattore di America Magazine. Proponendo la parrocchia come il luogo più adatto per farne esperienza. Il sinodo infatti, egli argomenta, non è una conferenza accademica ma è un’esperienza di sinodalità. Nessun documento potrà trasmetterne il “risultato”, perché il sinodo è una “cosa” da sperimentare, da fare.
Per la parrocchia padre Reese propone di adattare il modello suggerito dalla segreteria generale del sinodo: cominciare con una preghiera, lavorare per piccoli gruppi (10 persone), avere un “facilitatore” (sorta di moderatore che incoraggia a esprimersi e ad ascoltarsi reciprocamente), usare il metodo della “conversazione nello Spirito” sulla questione che si intende esaminare: ogni partecipante porta nel gruppo il suo contributo alla questione (che avrà ricevuto previamente, con il tempo di pregarci e rifletterci sopra), a partire dalla sua esperienza. Qui è il momento dell’ascolto: ognuno dice quello che ha percepito nella sua preghiera e riflessione, gli altri ascoltano.
Non si fa dibattito in questa fase. Piuttosto si condivide, dopo l’ascolto, ciò che ha colpito o suscitato interesse. Una sessione successiva, dopo un periodo di preghiera e riflessione, passa invece al dialogo, basato su ciò che è emerso, cercando di discernere e raccogliere il frutto di tale “conversazione”. Qui si è liberi di parlare. Lo scopo è riconoscere intuizioni e convergenze, identificare discordanze, ostacoli e domande, far emergere le “voci profetiche”, prevedendo eventuali passi successivi.
Un segretario raccoglie per iscritto quanto emerge nelle varie fasi. Tutto questo avvia un processo, che è molto diverso dall’incontro dove il parroco si limita ad annunciare decisioni già prese altrove. Ed è molto diverso anche da un “dibattito” che, come spesso accade, rischia di dividere più che unire. Papa Francesco ha suggerito, dunque, questa via diversa. Come ha capito il membro più giovane del Sinodo, il diciannovenne americano Wyatt Olivas: «Il Sinodo finirà, ma la sinodalità non deve finire: continua a muoversi e può continuare a trasformare e ad aprire porte». Conta, cioè, non tanto “cosa verrà fuori” in termini di decisioni, quanto il processo che è stato messo in moto, che dovrebbe diventare un metodo ecclesiale per vivere le differenze in maniera sana.