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lunedì 09 settembre 2024
 
fine vita
 

Il suicidio assistito di Elena: «Si vuole andare oltre i paletti fissati dalla Consulta»

03/08/2022  «La persona malata», è l’analisti del professore Luciano Eusebi dell’Università Cattolica di Milano, «non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il che evidenzia come attraverso l’autodenuncia di Marco Cappato s’intenda sollevare una nuova vicenda giudiziaria che spinga a legittimare l’aiuto al suicidio oltre i limiti fissati dalla Corte costituzionale». E aggiunge: «Per i cattolici dire che le aperture eutanasiche si collocano anche nell’ambito di valutazioni di ordine economico, molto distanti dall’enfasi sovente riferita ai diritti individuali, non dev’essere tabù»

Il professore Luciano Eusebi
Il professore Luciano Eusebi

«Il caso di Elena (la donna di 69 anni malata di tumore accompagnata a morire in Svizzera dal segretario dell’associazione Luca Coscioni Marco Cappato, ndr) si caratterizza proprio perché la persona malata non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il che evidenzia come attraverso l’autodenuncia di Cappato s’intenda sollevare una nuova vicenda giudiziaria che spinga a legittimare l’aiuto al suicidio oltre i limiti fissati dalla Corte costituzionale».

È la riflessione del professore Luciano Eusebi, ordinario di Diritto Penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nonché membro del Comitato scientifico del Centro di bioetica dell’Ateneo e consigliere dell’associazione “Scienza e Vita”, sulla vicenda della donna veneta che ha scelto il suicidio assistito.

Professore, il gesto di Marco Cappato, che si è autodenunciato ai carabinieri di Milano dopo avere portato Elena (nella foto in alto durante l'ultimo videomessaggio, ndr)  a morire in una clinica di Basilea, rilancia il dibattito sul fine vita. Si tratta di una provocazione che è resa possibile dall’inerzia del Parlamento che non legifera, come sostiene il presidente emerito della Corte Costituzionale Flick?

«È noto che il Parlamento aveva trovato nel 2017 un punto di equilibrio: il malato resta destinatario di impegno sanitario anche quando una patologia non può più essere contrastata, perché il malato non deve soffrire; la risorsa fondamentale, che un tempo non avevamo, costituita dalla medicina palliativa, dev’essere resa effettivamente disponibile, perché anche il soggetto più debole conta; nel contempo, è il malato che decide sulla attivazione e sulla eventuale interruzione dei trattamenti sanitari, pure di quelli salvavita (ciò che, peraltro, ci coinvolge, poiché tale scelta, quando una terapia non sia ormai palesemente sproporzionata, può dipendere in larga misura da come sappiamo essere vicini al paziente). Su questa base, la legge del 2017 non aveva ammesso, dunque, atti rivolti ad anticipare il momento della morte altrui, i quali risolvano per tale via l’impegno relazionale consistente nel farsi carico del malato. Com’è noto, tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto successivamente di ammettere l’aiuto al suicidio nel solo caso in cui il malato abbia già deciso di interrompere un trattamento salvavita, unitamente ad altre condizioni: non per evitare che il malato soffra, posto che la legge del 2017 aveva già previsto in tal caso, nelle limitate ipotesi refrattarie al controllo del dolore, il ricorso alla sedazione palliativa profonda, bensì per evitare un decorso verso la morte che si prolunghi, sebbene per un tempo breve. Orbene, la pronuncia della Corte costituisce già diritto vigente, ma senza una legge che ne regolamenti criteri e modalità essa è lasciata alla fluidità delle interpretazioni, soprattutto giurisprudenziali. Ciò non può comportare, tuttavia, indifferenza rispetto ai contenuti di una tale legge, specie ove attraverso di essi si cerchi di andare oltre il dettato della Corte costituzionale, secondo una prospettiva che muova di fatto in senso eutanasico».

Il caso di Elena rientra tra quelli indicati dalla sentenza della Consulta sulla depenalizzazione dell'aiuto al suicidio?

«Questa vicenda si caratterizza proprio perché la persona malata non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il che evidenzia come attraverso l’autodenuncia di Marco Cappato s’intenda sollevare una nuova vicenda giudiziaria che spinga a legittimare l’aiuto al suicidio oltre i limiti fissati dalla Corte costituzionale. Il che pone un problema di fondo: davvero favoriamo la premura verso i malati rendendo ad essi disponibile la via di un’anticipazione con aiuto altrui della morte, una via proposta reiteratamente dai media come la scelta dignitosa? Non ne deriva, forse, una colpevolizzazione dei malati e delle famiglie che chiedano ancora assistenza sanitaria, pur quanto una guarigione, o un contrasto efficace della patologia, non sia più possibile? E, pertanto, non ne deriva una sollecitazione implicita a far uso del cosiddetto diritto di morire, quasi che accettare una situazione di debolezza affidandosi all’altrui accoglienza risulti meno dignitoso? Non sono timori fuori luogo, se è vero che la stessa Corte costituzionale ne parla ampiamente nella prima parte della sua sentenza, proprio per motivare i limiti che fissa alla sua decisione. Come ne parla papa Francesco, quando mette in guardia dall’affermarsi di quella che definisce la "cultura dello scarto"».

Il testo della legge sul suicidio assistito prima della crisi che ha portato allo scioglimento anticipato delle Camere era stato approvato dalla Camera e doveva passare al vaglio del Senato. Come giudica questo testo? Pensa che il prossimo Parlamento debba ripartire da questo punto?

«Quel testo ha molte problematicità, che forse potrebbero essere superate. Non richiede – come invece la Corte – che il malato sia stato coinvolto in un percorso palliativo di contrasto della sofferenza, limitandosi a esigere che quest’ultimo sia stato offerto: con ciò manifestando la deriva verso un suicidio del tutto autonomo, nella sua motivazione, da uno stato di sofferenza. Non richiede neppure – come invece la Corte – che sia in atto nel richiedente un decorso patologico, ammettendo anche quelle che definisce «condizioni cliniche irreversibili»: con ciò aprendo potenzialmente al suicidio nell’intera area delle disabilità croniche. Rovescia, poi, la prospettiva della Corte, che non attribuiva obblighi esecutivi, in materia, al Servizio sanitario nazionale – diversamente, dunque, da quanto previsto nella legge sull’aborto, ma solo il dovere del controllo sulla sussistenza dei requisiti legalmente richiesti: posto che nel disegno di legge tale controllo viene attribuito di fatto al solo comitato etico, definito “di valutazione clinica”, mentre si esige che l’attuazione della pratica di «morte assistita» sia garantita dal Servizio sanitario nazionale: del quale in tal modo, però, si snaturano le funzioni. Può dunque auspicarsi una ripresa pacata del dialogo su questi e su altri punti delicati del disegno di legge approvato in marzo dalla Camera».

La Consulta ha bocciato di recente il referendum abrogativo, proposto dai Radicali, sulla legalizzazione dell’eutanasia. Una decisione giusta o di fronte a un Parlamento “bloccato” sui temi etici è opportuno dare la parola ai cittadini?

«La Corte costituzionale ha ravvisato che il referendum proposto avrebbe reso lecita tout court – abrogando il primo comma dell’art. 579 c.p., e al di là di quello che avrebbe potuto comprendere l’opinione pubblica – l’uccisione su richiesta di chi, in un dato momento, vi abbia consentito, senza alcun presupposto diverso dalla mera validità formale del consenso: in totale contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzionale in materia. Il problema è di carattere culturale: deve rendersi possibile un’illustrazione completa all’opinione pubblica delle implicazioni in gioco. Non si tratta di semplificare attraverso pochi slogan, lasciando intendere una sorta di divisione manichea tra chi ha premura per il malato, e dunque intende consentirne il morire, e chi rimane indifferente alla sua condizione. Posto che non è davvero così. Dobbiamo garantire dignità alla vita ancora possibile dei malati: escludendo certamente qualsiasi forzatura verso l’oltranzismo terapeutico, ma anche evitando di vedere nell’anticipazione della loro morte una soluzione appagante».

I temi del fine vita e della bioetica sembrano sullo sfondo, se non addirittura ignorati dai partiti, in questa campagna elettorale estiva. I cattolici dovrebbero farsi sentire di più? E in che modo?

«Forse è bene riflettere sull’ambiguità di una continua sollecitazione dell’opinione pubblica intorno a diritti da far valere individualmente, trascurando il capitolo dei diritti sociali. La pandemia dovrebbe averci insegnato molto da questo punto di vista, in particolare con riguardo alle carenze di assistenza verso le persone più deboli: nonostante una certa perdurante indifferenza verso i tanti morti per Covid-19, soprattutto persone fragili, che ogni giorno continuiamo a registrare. I cattolici, certo, dovrebbero saper essere presenti nel dibattito politico, soprattutto quando sono in gioco nodi delicati della relazionalità sociale. Dire, per esempio, che le aperture eutanasiche si collocano anche nell’ambito di valutazioni di ordine economico, molto distanti dall’enfasi sovente riferita ai diritti individuali, non dev’essere tabù. Ma i cattolici devono saper essere presenti non in nome di motivazioni confessionali, bensì sapendo argomentare secondo ciò che può risultare significativo per ogni concittadino. Senza legare la riflessione di ambito bioetico all’uno o all’altro schieramento politico e, tantomeno, senza presentarla come compatibile solo con uno di esse. Piuttosto, cercando di ricreare, in materia, un clima di dialogo sereno. I temi della bioetica dovrebbero rimanere esenti, del resto, da qualsiasi proposito di coltivare, attraverso di essi, consenso politico».

 
 
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