Non sono tranquillizzanti gli spettacoli di Pippo Delbono. Di scontato c’è solo quell’attenzione in più richiesta all’intelligenza e al cuore di fronte a quel continuo rompere gli schemi – narrativi e culturali - che procura sottile disagio, agita le domande più profonde, parla alle viscere prima che alla testa. E poi il ritrovare sul palco i suoi compagni di strada: Bobò, sordomuto, analfabeta, che ha vissuto 45 anni nell’ospedale psichiatrico di Aversa; Gianluca, con la sindrome di down; Nelson, clochard, scheletrico e allampanato… più che Compagnia, Delbono preferisce presentarla come una «comunità vagante», persone che «si ritrovano nella stessa natura, un’instabilità senza soluzione, che conosce la solitudine, l’isolamento e trova nell’atto teatrale la più alta condivisione possibile».
Già, perché nel teatro dell’artista originario di Varazze, si parli della tragedia del Belice (“Il silenzio, del 2000); o del dramma dell’Aids (“Questo buio feroce” del 2006), dei migranti e della morte dei sette operai della Thyssen Krupp (“La menzogna”, nel 2008), solo per citare alcune tra le opere prodotte - in una carriera che spazia dal teatro al cinema alla scrittura - la finzione si incrocia con la vita, se ne nutre, la assume a materia filmica, teatrale, scenografica. E gli attori diventano tutt’uno con i muri che schiacciano, con la musica che assorda o commuove, con la voce inconfondibile di Delbono che, dal fondo della sala o girando in platea, recita versi, commenta situazioni, parla con il pubblico.
L’opera con cui quest’anno ha girato per l’Italia – a Roma, al teatro Argentina è stato presentata nel percorso “Teatri del sacro per il Giubileo” – è “Vangelo”. Alla brigata Delbono questa volta si sono uniti l’orchestra, il coro, i danzatori e gli attori del teatro di Zagabria; Safi Zakria, profugo afghano e le musiche di Enzo Avitabile.
Il Vangelo secondo Delbono è il grido della guerra e quello dei profughi, è il crocifisso in un ospedale ma anche il canto liberatorio e vitale di Jesus Christ superstar; è il testo dei quattro evangelisti e quello degli apocrifi; è Gianluca in una culla al centro della scena, che suggerisce una creatura venuta ad abitare l’umanità, il Cristo o il Buddha; è la malattia; è Pasolini, Prevert, Sant’Agostino e …Margherita, la mamma, che Delbono ha perso qualche anno fa e continua a essere in tutti i suoi spettacoli. Cattolicissima, gli aveva chiesto di scrivere un testo sul Vangelo. “In questo lavoro c’è lei e ci sono io, un figlio che si ribella. I morti te li porti sempre dentro. E c’è un aspetto della nostra storia, un percorso, un cambiamento, un riavvicinamento. Sarebbe contenta… forse”, dice Delbono sorridendo, “ farebbe qualche piccola osservazione sulle gambe della ragazze troppo esposte». Dietro il palco dell’Argentina la fila di chi vuole incontrarlo si allunga. La chiacchierata parte da Vangelo ma si allarga alla sua arte in generale, che incontra la sua vita e di essa si nutre. “Sì, le mie opere nascono dal condividere un’esperienza, dall’attraversare, volenti o nolenti, zone di dolore che ti riportano ad altri percorsi. Per me il dolore è fondamentale per non farti perdere. Forse è questo il calvario: il peso di quella croce che ti rimette con i piedi a terra”. Uno sforzo richiesto soprattutto a chi fa il suo mestiere, perché, afferma “ti puoi perdere per un nulla”.
In Vangelo ci sono tanti cammini condivisi, come quello con i rifugiati ad Asti, che appaiono in alcuni inserti filmici. “Li ho incontrati, sono stato con loro, ho dormito, condiviso, litigato. Quando stai male e cerchi di avere una lucidità stai meglio con queste persone che ti parlano di lotta, di dolore. Invece faccio fatica ad andare in discoteca, dove tutti ballano e si sconvolgono”. Un altro percorso è quello dei linguaggi artistici. Quelli scelti da Delbono, soprattutto all’inizio del suo percorso, hanno fatto andare via dai teatri più di uno spettatore “tradizionale”. “Oggi non si può più fare un teatro di racconti, c’è un andare avanti con la destrutturazione del teatro: salire e scendere dal palco, parlare al microfono in platea, la voce registrata, l’uso degli oggetti, la semplicità di un muro, un’arte un po’ installativa».
Anche i percorsi spirituali hanno un loro peso. Delbono è praticante buddhista, con un’esperienza, dice, che “nel tempo è cambiata. I cammini spirituali sono come degli alberi, ci sono diverse radici e certe volte c’è una radice che senti più vicina al tuo pensiero. Mia madre era molto cattolica, ma era contenta di questa mia esperienza. Sono convinto che tutti i percorsi spirituali, politici, se non cambiano muoiono. Una frase che mi colpisce del Vangelo è quella del seme che se rimane lì non serve, deve morire, passare a un’altra vita… bisogna uccidere la madre, in senso metaforico, per trovare il proprio pensiero».
Nella sua Compagnia hanno un posto d’onore le tematiche e le persone che papa Francesco chiama “periferie esistenziali”. Lo ha scelti, dice, prima di tutto per “la bravura”, di quei “corpi senza menzogna”. «Sono straordinari. Ad ogni rappresentazione sembra che lo facciano per la prima volta, lavorano come me da tanti anni ma hanno la capacità di non uccidere la spontaneità. In “Vangelo” Safi, il ragazzo afghano, sta davanti alla gente per dieci minuti a lasciarsi guardare, fa una cosa difficilissima. Ogni sera ce la fa. E ha la verità”.
Tutto questo diventa un fattore umano importantissimo: Bobò, che ha compiuto 80 anni, gira dietro le quinte a suo agio, grandissima presenza scenica ; Nelson, “che prendeva 100mila medicine, schizofrenia altissima”, ora vive da solo… Teatro- terapia? “Il mio compito è dire “guardate che qui c’è bellezza!”. Abbiamo bisogno di queste persone. Gli afghani sono artisti che ci raccontano una verità che abbiamo perduto. Bobò vive con me e ricevo moltissimo. C’è vita, mi arricchisco. Invece mi annoio molto con gli attori di teatro, con i critici che sembrano chiusi in una famiglia vecchia».
Il tema dell’ipocrisia, nella società e nella Chiesa ritorna come un grido. In quasi tutti i lavori di Delbono si rincorrono processioni grottesche con prelati in merletti e broccati, personaggi lugubri. «La verità ci rende liberi, dice il Cristo ribelle. Qualsiasi percorso può portarti alla verità. E nella Chiesa, che comunque ha tante anime, c’è ancora una forte ipocrisia in questa paura ossessionata per l’omosessualità. Quando hai paura mi fai paura, se non hai paura sei tranquillo. Una volta un prete in gamba mi ha detto che noi dobbiamo avere misericordia per noi stessi. Io sono omosessuale e non voglio che qualcuno abbia misericordia per me. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, dice il Vangelo. Se non si capisce questa espressione si può rischiare quella pietà per il povero che è troppo facile: non conosco me stesso, metto una maschera e mi dedico agli altri. Amare se stessi vuol dire conoscersi, accettarsi..se ami solo il prossimo tuo e non te stesso diventa un martirio. Ci sono persone che soffrono semplicemente perché hanno un’altra sessualità, possono uccidersi, vivono in solitudine: bisogna dire loro “non preoccupatevi, la vita è più grande!”. Questo sta mancando. Con le sue riserve la Chiesa non difende la vita, ma una finta morale. E questo è molto pericoloso. Così come mi fa sempre più paura la cultura del machismo che avanza, anche in certi ambienti della sinistra in Italia. È pericolosissimo. Ho conosciuto preti omosessuali, che mi dicevano: grazie alla mia omosessualità mi sono dedicato agli altri. Capire la ricchezza delle diversità, sarebbe un passo straordinario». Per questo motivo, forse, il cuore del Vangelo, per Delbono sta non solo nella parabola del seme, ma anche nell’espressione “la verità vi farà liberi”. “L’ho letto tante volte. La verità è un cammino, penso si capisca solo in punto di morte. Però come artisti possiamo fare un “cammino verso”. Nel buddhismo c’è una cosa molto bella: si dice che dentro di noi ci sono i dieci mondi, la buddhità e il demonio. Scegliamo noi. La mattina quando faccio la mia pratica è come se rimettessi una promessa profonda nella mia vita, è come leggere una pagina del Vangelo. In questi piccoli momenti incontri la tua parte illuminata, Dio, il Buddha. L’amore non è chiedere, ma è dare.... Le menzogne sono quelle trasposizioni fuori da te, anche quel dire “aiutami”, quel chiedere di sopperire la nostra ansia. Nessuno ti aiuta: è dentro di te che hai tutte le possibilità».
Durante lo spettacolo parlando in prima persona Delbono riporta una frase che gli disse un maestro buddhista: “La compassione è scendere nella zone più buie e poi risalire con qualcuno”. Un’espressione che ha capito, spiega, andando a vivere con Bobò. «La compassione è un’esperienza importantissima: quando ho iniziato a pensare a Bobò sono uscito dalla mia depressione, anche legata all’Aids. Scientificamente quando esci fuori da te guarisci. Il rapporto con la morte è fondamentale: la coscienza del morire la perdiamo in ogni istante. Partiamo dalla morte per parlare di vita. La parabola del seme la mando sempre ai buddhisti, così come le cose del Papa”.
Agli amici che gli chiedono se è diventato cristiano risponde che “confrontarsi con le altre religioni vuol dire ascoltare, mettersi in discussione e poi fare dei cammini insieme. Se noi arriviamo alla morte felici, qualsiasi cammino abbiamo fatto, abbiamo vinto. Perché siamo arrivati a vederla come quel seme lì. In quella frase c’è una grande saggezza. È la forza della semplicità. Viviamo in un mondo complicato: Bobò, Gianluca sono uomini semplici ma complessi. Hanno un senso perfetto del ritmo delle pause, dei tempi, come i bambini… Hanno il senso complesso della vita, che è portarsi dentro la vita e la morte». Del Papa apprezza le “aperture straordinarie: penso all’ immagine di chinarsi, standoci, fermandosi, senza fretta. Trovo straordinario il suo non parlare di morale ma di esseri umani”. Su un tema però “chiede” qualcosa di più: “Parlando degli omosessuali ha detto una cosa bellissima: “Chi sono io per giudicare?”, ma adesso sento un freno. Se potessi parlargli gli direi di stare attento perché in questo cammino bisogna ricominciare ogni mattina con un passo. Reinventare il risorgere ogni giorno».