«Un giorno buio nella storia dell’umanità, un terribile affronto alla dignità dell’uomo». Sì, perché «il cuore dell’uomo è un abisso da cui emergono a volte disegni di inaudita ferocia». Eppure, «il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola», anche quando «la forza delle tenebre sembra prevalere». «Mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell'umanità». Queste sono state alcune tra le prime parole pronunciate in pubblico da san Giovanni Paolo II, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Era il 12 settembre 2001, un mercoledì mattina, giorno di udienza generale.
Tra i fedeli in piazza san Pietro c’era un silenzio attonito. Tutti avevano ancora negli occhi le immagini rimbalzate in tutto il mondo, appena poche ore prima. Immagini tremende, oltre ogni possibilità di commento. Immagini capaci di annichilire. Il pianeta intero (e non solo il cosiddetto mondo occidentale) si scopriva attraversato da una ferita profonda: sangue, terrore, odio. Il Santo Padre parlò con la voce incrinata dalla commozione. E in quell’ora terribile pregò perché non prevalesse «la spirale dell’odio e della violenza». Implorò la Vergine perché suscitasse in tutti «pensieri di saggezza e propositi di pace».
Pochi giorni più tardi, dal 22 al 27 settembre 2001, durante un memorabile viaggio apostolico tra Kazakistan e Azerbaijan, (terre a maggioranza musulmana, ma segnate da una pluralità di culture e tradizioni religiose), papa Wojtyla tornò a invocare un disegno di pace. E lo fece in modo, se possibile, ancora più esplicito e compiuto. Lanciò «un fervido appello a tutti, cristiani e seguaci di altre religioni, affinché cooperino per edificare un mondo privo di violenza, che ami la vita e si sviluppi nella giustizia e nella solidarietà. Non dobbiamo permettere che quanto è accaduto conduca a un inasprirsi delle divisioni. La religione non deve mai essere utilizzata come motivo di conflitto. I cristiani e i musulmani preghino l’unico Dio onnipotente affinché possa regnare nel mondo il fondamentale bene della pace. Che le persone di tutti i luoghi operino per una civiltà dell'amore, nella quale non vi sia spazio per l'odio, la discriminazione e la violenza». Parole che, lette oggi, suonano quanto mai profetiche.
Infatti, da lì a breve, il mondo conobbe proprio quell’«inasprirsi delle divisioni» paventato dal Santo Padre. Come non ricordare i festeggiamenti per gli attentati, verificatisi in alcuni Paesi islamici, ma anche i deliranti propositi di vendetta esplosi tra i movimenti estremisti in America e non solo. E come non ricordare l’intervento statunitense in Afghanistan, una pagina oggi tornata tragicamente d’attualità, nonché la coda di attentati terroristici che insanguinò l’Europa negli anni successivi.
E come tacere dell'Iraq, un conflitto che papa Giovanni Paolo II tentò di scongiurare fino alle parole dette a braccio dopo l'Angelus domenica 16 marzo 2003, quattro giorni prima dell'attacco guidato dagli Usa? «Io», disse allora Karol Wojtyla, «appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: "Mai più la guerra!", come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità. E quindi preghiera e penitenza!»
Nelle settimane seguenti all’11 settembre, in tanti iniziarono (o meglio, ricominciarono) a parlare di “scontro di civiltà” (di cinque anni prima era il famoso volume di Samuel Huntington, che poneva il tema all’attenzione internazionale). Su questo punto, la Chiesa di allora (come quella di oggi) è stata sempre chiara. «Non si dovrebbe parlare di scontro di civiltà» disse il cardinale Paul Poupard, intervistato da Famiglia Cristiana poco dopo gli attentati. «Piuttosto si dovrebbe parlare di amnesia delle civiltà. Infatti le tre grandi religioni monoteiste, cristianesimo, ebraismo e islam, condividono l’anelito alla pace e portano in sé i germi del dialogo». Val la pena ricordare che Poupard era un profondo conoscitore della materia, tanto da aver presieduto, nel corso degli anni, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e la Commissione per le Relazioni Religiose con i Musulmani. Lo stesso San Giovanni Paolo II, il 1 gennaio 2002, affermò che «le tre grandi religioni abramitiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, sono chiamate a pronunciare il più fermo e deciso rifiuto della violenza. Nessuno, per nessun motivo, può uccidere in nome di Dio».
Si vede con chiarezza un cammino. Difficile, a tratti doloroso, ma sempre sostenuto dalla Chiesa con ostinata speranza. E capace di tradursi in azioni concrete. Pochi mesi dopo gli attacchi alle torri gemelle, San Giovanni Paolo II si fece promotore di un incontro tra leader religiosi ad Assisi, pregando per la pace al fianco di un imam e di un rabbino. Dopo di lui, i successori hanno tenuta viva la fiamma del dialogo (e Francesco, in particolare, ne ha fatto uno dei cardini del suo pontificato).