Cari amici lettori, nella notte del 7 settembre, nell’attacco terroristico alla missione di Chipene, nella provincia di Nampula, nel nord del Mozambico, è stata uccisa suor Maria De Coppi, missionaria comboniana, di 82 anni. La cornice della barbara uccisione è la guerra civile che sta martoriando dal 2017 il Paese, dove ci si contende il gas di cui è ricco; guerra aggravata dal sorgere dell’estremismo islamico e da cataclismi naturali, e che ha causato tra 800.000 e 1.000.000 di profughi. Suor Maria, originaria Santa Lucia di Piave e trasferitasi poi con la famiglia a Ramera (Treviso), assieme ad altri missionari (tra cui 4 consorelle e 2 preti), si prendeva cura delle migliaia di persone costrette a scappare in seguito alle violenze.
Da 59 anni in missione, era consapevole del rischio che correva restando lì: lo aveva raccontato ad amici del paese d’origine lo scorso ottobre, preoccupata più che per sé stessa per la «povera gente indifesa» che accoglieva ogni giorno. «Io non abbandonerò questi poveri», aveva confidato a un’amica. Dietro una frase così “semplice” e spoglia si nasconde la fede di una missionaria – e con lei di tanti altri e altre (7.000 italiani nel mondo, di cui 4.000 tra preti e religiosi/e) – che, innamorata di Gesù, amava tenacemente, di un amore quasi viscerale, la gente a cui era stata inviata. «Mi sento parte di quella terra e di quel popolo», aveva raccontato. Tanto da voler rimanere in missione anche all’età in cui normalmente “ci si ritira”.
Vi ritrovo lo zelo di san Paolo («mi sono fatto servo di tutti… mi sono fatto tutto per tutti»), di chi è diventato “tutt’uno” con la sua missione e la gente che ha così abbracciato. «Povera tra i poveri, sempre al servizio degli altri», la ricorda il cugino Pietro. Questi missionari sono, con la loro stessa vita, un interrogativo per noi cristiani di Paesi benestanti ma un po’ dimentichi del “tesoro” che abbiamo nelle mani con il dono della fede. Sono una testimonianza che dovrebbe scuoterci e interrogarci sulla nostra adesione a Cristo. Nelle nostre Chiese talvolta un po’ spente ha molto da dire questa “fiamma” che vediamo invece ardere nella fede tenace di suor Maria, e con lei in tanti altri che hanno dato la vita per la missione, non pochi fino al sangue.
Fede certamente provata nel crogiuolo delle difficoltà delle Chiese del Sud del mondo. Il “fuoco” interiore di questa numerosa schiera di missionari può aiutarci a vedere le cose in una luce diversa e farci riflettere su ciò che davvero è essenziale. Insieme alla fede che essi testimoniano, l’amore: la cura concreta delle tante povertà che incontrano. E la speranza, come ha testimoniato in modo commovente uno dei preti fidei donum della stessa missione, di fronte alla possibilità di morire: «Se il buon Dio me ne darà la grazia», ha scritto don Loris Vignandel ad amici su WhatsApp, «vedrò di proteggervi da là. Ho perdonato chi eventualmente mi ucciderà». Sono le tre cose essenziali nella vita cristiana – fede, speranza, amore –, senza le quali tutto il resto è esteriorità senz’anima. Soprattutto l’amore, «gratuito e senza distinzioni», come ci racconta don Guido Trezzani nel servizio sulla Chiesa in Kazakhstan (pag. 18), è ciò che testimonia in modo incontrovertibile Colui in cui crediamo.