Nel momento in cui scriviamo, il bilancio dell'attentato islamista contro i turisti che stavano visitando il Museo del Bardo, a Tunisi, non è ancora chiaro: si parla di 22 morti e 50 feriti, tra i quali anche alcuni italiani scesi per la visita da una nave della costa Crociere.
Al di là del pazzesco bilancio in termini di vite umane, comunque, l'attentato del commando islamista (a quanto pare cinque uomini, di cui due abbattuti dalle forze di sicurezza tunisine e uno catturato) ripropone la questione intorno a cui si dibatte ormai da molti mesi: è possibile immaginare una lotta contro l'Isis combattuta solo a distanza (per esempio con i bombardamenti aerei, come in Iraq e in Siria) o per interposta persona, cioè senza far scendere direttamente sul terreno i soldati dei Paesi occidentali, con le loro capacità di combattimento? Dobbiamo rassegnarci a un impegno indiretto ma di lungo periodo, con il relativo stillicidio di attentati in Paesi sempre nuovi, le ondate di profughi, il traffico di esseri umani dei flussi migratori, insomma tutte le conseguenze che nel tempo l'Isis sta producendo?
La domanda diventa sempre più pressante, perché è chiaro (per restare al Nord Africa) che questa strage è figlia dell'instabilità in Libia, e dello spazio di cui l'Isis si è impadronito nel Paese abbandonato alle proprie turbolenze dopo la guerra del 2011 (approvata anche dall'Onu) e la caduta del regime di Muhammar Gheddafi. Altrettanto si può dire, per restare a questa parte di mondo, per la recrudescenza degli attentati islamisti nel Sinai egiziano: zona da lungo tempo tormentata dalla violenza, ma resa ancor più difficile da controllare per il Cairo proprio a causa dell'appoggio che le tribù islamizzate ricevono ora dalle milizie dell'Isis annidate in Libia.
Quindi, ancora una volta: dobbiamo rassegnarci a questa scia di sangue, chissà ancora per quanto tempo? O dobbiamo invece intervenire per soffocare il mostro, accettando di pagare un prezzo che, in termini di sacrificio di soldati, potrebbe non essere di poco conto?
Nella riflessione deve entrare anche un'altra considerazione. L'Isis, come già Al Qaeda dopo il crollo del regime talebano in Afghanistan che la proteggeva, è diventato un marchio di fabbrica, un "brand" del terrorismo internazionale. Chi ha ucciso i turisti al Museo del Bardo, con ogni probabilità, non ha mai visto davvero un militante dell'Isis, sa dei jihadisti solo ciò che ha visto su Internet o che ha sentito dire in qualche moschea. Però colpisce usando quel nome, perché sa che il messaggio arriverà forte e chiaro. Anzi, più forte e più chiaro perché trasmesso dallo strumento in questo momento più forte e temuto.
Anche la scelta di colpire i turisti si spiega con questo misto di "dilettantismo" e di "professionalità". Sparare su un pullman fermo davanti a un museo è facile, basta avere la necessaria crudeltà. Ma colpire i turisti significa, anche, mettere in ginocchio uno dei settori fondamentali per l'economia di questi Paesi. Succede oggi alla Tunisia ciò che è successo negli anni scorsi all'Egitto. Anche questo fa pensare che il morbo jihadista si stia diffondendo non tanto in prima persona ma piuttosto come fonte di ispirazione e di strategia per i gruppi locali. A maggior ragione, quindi, dobbiamo porci la domanda di cui si diceva: ci rassegniamo a questo o ci rassegniamo alla fatica e ai sacrifici per intervenire sul campo?