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giovedì 03 ottobre 2024
 
 

Servillo come Mastroianni: è "La dolce bellezza"

03/03/2014  Molte le assonanze tra il capolavoro di Paolo Sorrentino e "La dolce vita" di Fellini. Il filo rosso più evidente: la perdita del sacro, di cui sono malati i nostri anni.

Paolo Sorrentino con la statuetta dorata vinta per La grande Bellezza
Paolo Sorrentino con la statuetta dorata vinta per La grande Bellezza

A proposito dell’ultimo successo di Paolo Sorrentino verrebbe voglia di far sintesi e parlare di Dolce bellezza. Tanti e tali sono infatti i riferimenti al capolavoro di Mastroianni e Fellini, che nel 1963 vinsero l’Oscar mettendo in scena la Roma decadente solcata dal reporter Marcello Rubini, precursore del malinconico Jeff Gambardella. Due film, due mondi. Eppure legati da un filo rosso se già allora Morando Morgantini parlava di “Babilonia precristiana”, di una “materia da giornale rotocalco trasfigurata”, di uno “spartiacque del cinema italiano” di un “film cerniera”. E se un altro critico del calibro di Pier Paolo Pasolini addirittura etichettava il film felliniano come “il più alto, il più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni”.

Era di certo un’altra Italia. Quella del boom, della crescita più alta della nostra storia (+8,3%), dell’industria che superava l’agricoltura (il 40,6% degli addetti contro il 29%), della Dc di Fanfani e delle convergenze parallele. Era l’Italia in cui il populismo s’era già visto alla voce Giannini come oggi ci turba alla voce Grillo, e nella quale serpeggiava una tentazione autoritaria mai sopita, che avrebbe trovato sfogo nel contestato e mai avvenuto congresso dell’Msi a Genova. In quella “satira in grande scala”- la definizione è del critico inglese Philip French -vi sono riferimenti al caso Montesi e si precorre lo scandalo Profumo, proprio come nella Grande bellezza non mancano accenni agli ultimi scandali finanziari e politici. E poi ancora, feste promiscue, attici su una Roma dolente e dormiente, tocchi di puro sogno condensato, come la giraffa che appare a un certo punto di fronte all’incredulo Gambardella, a raggrumare in un flash l’irruzione del sogno.

Simili anche le polemiche, con discordi pareri anche in area cattolica, se è vero che il gesuita Angelo Arpa affermò alla radio che La dolce vita era “la più bella predica che avesse ascoltato” e Alain de Benoist disse che “testimoniava con estrema sensibilità non il crollo della religiosità ma della sua facciata benpensante”; al contrario l’Osservatore Romano, con due articoli dai titoli eloquenti, La sconcia vita e Basta, condannava senza appelli.

A noi sembra proprio questo del sacro, la sua assenza, la sua incoercibile, sommersa, sottostante nostalgia il filo rosso più forte tra i due capolavori. La dolce vita, quadro dell’Italia del boom che scopriva la dolcezza del consumo, raffigurava per la prima volta su uno schermo come consumo anche l’eros, diventando con ciò premonizione degli anni futuri. Quelli di un benessere che si sarebbe trasformato in edonismo, del consumo come cifra assoluta di un’epoca. In questo senso La grande bellezza è l’ultimo atto de La dolce vita: tutto negli anni passati da un ciak all’altro sembra essersi ridotto a immagine, apparenza, nostalgia di un senso perduto, estetismo. E il consumo più che mai è diventata l’illusione, per dirla con il sociologo Maurto Magatti, di una “illimitata, narcisistica  e illusoria espansione dell’io”, di una sua protesi sostitutiva del sacro. Il consumo è esso stesso diventato sacro. In questo sta la tragedia dei nostri anni che lo stesso Sorrentino ha colto, dichiarando come il suo film “è una dicotomia tra sacro e profano. Per me che sono ateo il sacro è tutto ciò che è degno di essere ricordato. Il profano resta il dimenticabile”.  Se c'è una nostalgia nel film - ha continuato - è per la rinuncia che ha fatto il nostro Paese sulla frequentazione del mistero”.  

Quello che qualcuno ha definito "capitalismo tecno nichilista", estrema propaggine dell’Italia del boom, non è altro infatti che consumo allo stato puro, assoluto, sacralizzato. Ci siamo riempiti di cose, di oggetti, di feste, di corpi. Abbiamo rivoltato su questo il nostro bisogno di mistero. Sorrentino ha accolto tutto questo in immagini di grande bellezza appunto.  Ne ha tratto una fotografia amara e dolente. Che resterà come una cerniera tra questi anni e che quelli che verranno di cui poco o nulla sappiamo.

 


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