Nel suo discorso di insediamento, in avvio di secondo mandato, il Presidente della Repubblica ha indicato l’urgenza della riforma del Consiglio superiore della magistratura, organo di rilevanza costituzionale la cui credibilità è stata messa in questione, in modo eclatante a partire dal 2019, con l’esplosione del cosiddetto caso Palamara. Un incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente del consiglio Mario Draghi ha accelerato il percorso della riforma, da tempo in stasi, in parte a causa delle molte divergenze di una maggioranza larga e composita, per portarla in Consiglio dei ministri l’11 febbraio 2021.
PERCHÉ BISOGNA FARE IN FRETTA
La consiliatura del Csm dura quattro anni, l’elezione di quello in carica è stata indetta il 9 aprile del 2018, siamo dunque vicini alla scadenza (il nuovo consiglio dovrebbe essere pronto per luglio). L’urgenza deriva dall’opportunità di arrivare a una riforma in tempo per la nuova tornata elettorale, anche per evitare che si torni a eleggere un Consiglio con le medesime regole che non godono più della fiducia dei cittadini, perché non sono riuscite a porre argine adeguato allo «scandalo delle nomine a uffici giudiziari di vertice oggetto di manovre concertate fra magistrati e uomini politici», con «la politica che interferisce abusivamente nell’organizzazione giudiziaria (con esponenti della magistratura a lasciarsi volentieri interferire)». (Vincenzo Foppo, avvocato, professore di diritto civile a Genova, autore di Il racconto della legge, interessantissimo libro pensato per spiegare la giustizia ai comuni cittadini senza annoiarli).
UN DOPPIO CONFLITTO DI INTERESSI
L’ambizione dei magistrati a entrare in Csm o a ricoprire incarichi direttivi in Procure e Tribunali è legittima in sé, ma pone un problema quando l’interesse personale o del gruppo di appartenenza prevale su quello del buon funzionamento dell’istituzione. Il rischio è che in questo caso si verifichi un improprio incontro a metà strada con interessi (meno legittimi) ma speculari di politici a dirigere nomine a incarichi direttivi di magistrati in base al proprio “gradimento”. Se questo avviene, in modo più o meno plateale, diventa possibile che le persone destinate a funzioni direttive nelle Procure e nei Tribunali siano scelte con criteri diversi dal merito e dall’attitudine al coordinamento (appartenenza correntizia in base a una logica di spartizione: uno a te uno a me; gradimento da parte della politica; capacità di autopromuoversi etc...).
ASSE ANM-CSM, BASTERÀ CAMBIARE LA LEGGE ELETTORALE?
Uno dei problemi del potere di influenza assunto dalle correnti della magistratura in Consiglio superiore ha a che fare con il fatto che spesso i magistrati vengono eletti al Csm in forza del consenso ricevuto, prima, in ruoli di rappresentanza all’interno dell’Associazione Nazionale magistrati, il sindacato cui sono iscritti molti anche se non tutti i magistrati italiani. C’è chi sostiene che cambiare la legge elettorale, già per altro cambiata molte volte, con cui si eleggono i magistrati in Consiglio, potrebbe non bastare se non si rende meno diretto il passaggio tra le cariche sindacali e il Csm. E intanto uno dei motivi che stanno rendendo difficile la scrittura della riforma del Csm dipende dal fatto che alcune parti politiche premono per sostituire l’elezione dei magistrati in Consiglio superiore con un sorteggio secco o temperato, ma l’opzione pone, oltre al resto, problemi di costituzionalità.
TENSIONE TRA POLITICA E GIUSTIZIA
Che ci sia una tensione tra i poteri, separati per definizione nelle democrazie pluraliste a garanzia dei cittadini, è per certi versi fisiologico: lo prova il fatto che, a prevenzione di ogni prevaricazione, la Costituzione ha previsto un sistema di contrappesi in modo da far sì che ogni potere sia controbilanciato da un altro. Anche il Consiglio superiore che prevede una componente maggioritaria togata (eletta da magistrati a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura) e una componente “laica” eletta dal Parlamento in seduta comune (volta a evitare che l’organo di autogoverno dei magistrati diventi anche autoreferenziale) nasce così com’è proprio per l’esigenza di questo bilanciamento. È capitato che la tensione tra politica e giustizia negli ultimi 30-40 anni si sia esasperata al punto da rasentare forme patologiche. Ma il tema del Csm in questo momento non ha che fare tanto con la ricorrente accusa, più o meno strumentale, che la magistratura sconfini in un ruolo di supplenza della politica dovendo prendere decisioni su temi “divisivi” che la politica stenta ad affrontare, quanto con il prevenire il rischio che partiti o esponenti politici tentino di condizionare a proprio interesse nomine di capi degli uffici giudiziari, trovando terreno fertile nella duplice “lottizzazione” del Consiglio superiore. Vero è che lo scontro resta sullo sfondo e va detto per chiarezza che sarebbe importante che una riforma, quale che sia, non diventi il pretesto per regolare i conti della conflittualità più o meno carsica.
LOTTIZZAZIONE, UN PROBLEMA DOPPIO
A proposito di “lottizzazione”. Si tende, almeno nel dibattito pubblico, ad attribuire questa distorsione tutta al lato “togato” facendo leva sul fatto che le “correnti” hanno perso nel tempo parte della loro tensione ideale per farsi strumento di spartizione nell’assegnazione degli incarichi, perché il consigliere eletto in Csm con il sostegno di una corrente tenderà a favorire i candidati di quella. È un nodo innegabile, che esiste e va districato, ma sarebbe miope non rilevare che la lottizzazione in Csm non è un problema che penda solo dalla parte dei magistrati. Anche la parte di nomina del Parlamento è spesso scelta lasciando prevalere criteri di appartenenza politica, tra persone spesso riconoscibili anche al cittadino per la loro fedeltà alla coalizione o al partito che li esprime in una logica anch’essa da manuale Cencelli, trattando il requisito della competenza giuridica richiesto dai costituenti come una sorta accessorio necessario, per non essere incompatibili con la carica, ma non sufficiente. Prova ne è il fatto che è capitato in un recente passato persino che il Parlamento in prima battuta eleggesse “ineleggibili” per non aver neppure verificato che il requisito minimo ci fosse. Se questo avviene, specie in momenti di particolare conflittualità tra politica e magistratura, il rischio è che la parte politica si affacci al Csm con l’idea distorta di presidiare il territorio. Anche questa è una distorsione, che non aiuta il buon funzionamento del sistema giustizia, né una selezione trasparente dei candidati ai posti direttivi, men che meno la credibilità del Csm, agli occhi dei cittadini già ai minimi storici.
COME SCEGLIERE I CAPI, PERCHÉ NON É SEMPLICE COME SEMBRA
C’è chi pensa che per ridurre gli effetti della lottizzazione sarebbe sufficiente limitare la discrezionalità del Csm prevedendo criteri di selezione rigidi e predeterminati per scegliere i capi di procure, tribunali e corti. Ma la storia insegna che la questione è più delicata e complessa. Per fare esempi al di sopra di ogni sospetto, basti pensare che il criterio rigido dell’anzianità tornò utile a impedire che Giovanni Falcone diventasse capo dell’ufficio istruzione di Palermo, sopravanzato da un magistrato digiuno di indagini di mafia. Quando, poi, si scelse Paolo Borsellino come capo della Procura di Marsala, più giovane di altri ma con il bagaglio che conosciamo, l’aver derogato al criterio invalso fin lì dell’anzianità aprì la strada che contribuì alla delegittimazione strumentale di magistrato ucciso a via D’Amelio con l’accusa di “professionismo” dell’antimafia, cosa che contribuì a isolarlo e a renderlo più facile bersaglio. Questo per dire che, se troppa discrezionalità rende tutto opinabile, un eccesso di automatismo rischia di produrre nomine formalmente insindacabili ma non ben tagliate sul ruolo nella sostanza. È evidente che per ritrovare credibilità il sistema ha bisogno di massima trasparenza, ma il punto è trovare una strada di sano equilibrio tra eccesso di rigidità ed eccesso di discrezionalità. Anche perché troppo spesso accade che le decisioni del Csm vengano poi impugnate davanti al Tar e al Consiglio di Stato, e lì smontate. Quando questo capita con i vertici della Cassazione, come è successo di recente, la credibilità del sistema traballa ulteriormente.
CHE COSA SONO LE "PORTE GIREVOLI" (E RELATIVE CONTRADDIZIONI)
Tra i temi sempre caldi ricorre quello delle cosiddette "porte girevoli" tra magistratura e politica. L’espressione allude a un passaggio troppo agevole dei magistrati alla politica e ritorno: è evidente che un magistrato candidato a un’elezione (politica o amministrativa), in un sistema democratico di poteri separati, pone un problema non piccolo all’immagine della propria indipendenza, specie quando, come è accaduto, si fa i consiglieri comunali o gli assessori in un posto e si resta magistrati in un altro. Da molto tempo si parla di prevedere limitazioni alla possibilità di rientrare nel ruolo in magistratura, una volta ricoperta una carica elettiva di natura politica o amministrativa. È una questione che dovrebbe risolvere il Parlamento con legge, disegnando la soluzione che ritiene più opportuna. Politica e magistratura condividono da anni la necessità di una regolamentazione in questo senso, ma il provvedimento fin qui non è arrivato. Potrebbe arrivare con la riforma in cantiere. Si va verso una preclusione al rientro nelle funzioni da magistrato, prevedendo incarichi al ministero della Giustizia o, anche forse, al Massimario della Cassazione (un ufficio tecnico che non prende decisioni). Si discute se sia il caso di prevedere, ma la questione divide la maggioranza, limitazioni (e di che tipo) anche per chi abbia ricoperto incarichi da “fuori ruolo” come “capo di Gabinetto” e simili. Al momento la bilancia pende per il sì alle restrizioni. È uno dei temi “forti” della riforma in discussione. Ma nel prendere atto dell’urgenza del problema, non si può non rilevare un’annosa contraddizione: i partiti che accusano la magistratura di disinvoltura nel passaggio alla politica talvolta sono gli stessi che, qualora lo ritengano utile alla propria causa, non rinunciano a tirare magistrati – con maggiore o minor successo – dalla propria parte, proponendo loro candidature e ministeri.
UN'ALTA CORTE PER IL DISCIPLINARE? I PROBLEMI SUL TAVOLO
Una delle proposte che circolano in fatto di riforme del Csm riguarda l’opzione di affidare il procedimento disciplinare per magistrati non più come ora a un’apposita commissione del Consiglio superiore, ma a un’Alta corte, in modo da scollegare il problema disciplinare da quello degli incarichi (già ora affidati a due sezioni diverse). Al di là di tutti gli altri profili, compresi quelli costituzionali, il tema è: come si sceglierebbero e tra chi i membri dell’Alta corte non prevista dalla Costituzione senza pregiudicare l’autonomia della magistratura? E soprattutto, quanto è alto il rischio che il problema della lottizzazione di cui sopra si sposti semplicemente all’Alta corte?
AUTOGOVERNO, AUTONOMIA, INDIPENDENZA. CHE COSA SONO, PERCHÉ SONO IMPORTANTI
Sono una garanzia per il cittadino non un privilegio di casta: meno indipendente è la magistratura, più si rischia che la giustizia abbia un occhio di riguardo per i poteri da cui dipende. Una giustizia poco indipendente, lo insegnano la storia e la geografia, tende sempre a essere più debole con i forti e più forte con i deboli. Non è il genere di giustizia dalla quale un comune cittadino possa attendersi il riconoscimento certo dei propri diritti. Dunque è interesse soprattutto di tutti noi salvaguardare quelle prerogative. Fermo restando il fatto che non devono e non possono tradursi in «decisioni arbitrarie o imprevedibili». (Copyright, Mattarella, discorso di insediamento secondo mandato).