Il chirografo di Pio XII, in piena guerra le missioni di Giovanni XXIII, le scelte difficili di Paolo VI, Marcinkus e l'Ambrosiano, la Maxi tangente Enimont, la meteora Gotti Tedeschi. La storia dello IOR ha attraversato momenti
difficili, segnati da numerose vicende e gravissimi scandali. Alla vigilia di una nuova epoca per l’Istituto, vale la pena di ripercorrere le tappe salienti della sua storia, per capire che cos’è veramente lo IOR e a che cosa serve.
PRIMA PARTE. LA NASCITA DELL'ISTITUTO
L’aura di segretezza che circonda lo IOR nasce già con il suo nucleo
originario: la Commissione cardinalizia per i depositi Ad Pias Causas,
considerata l’antenata dell’Istituto. Fu infatti creata l’11 febbraio
del 1887, d’intesa con il vicario pontificio, il cardinale Raffaele
Monaco la Valletta, da papa Leone XIII, il pontefice della Rerum
Novarum, per amministrare e custodire in un fondo speciale i capitali
delle “pie fondazioni”: le offerte dei fedeli; i lasciti di case,
terreni e palazzi; i beni delle diocesi destinati all’attività religiosa
o benefica. Un patrimonio da tenere nascosto, perché andava messo al
riparo dalle confische incombenti dello Stato italiano. Nei decenni la
Commissione assume altri nomi, mantenendo lo stesso ruolo, e nel 1939 si
trasferisce nel torrione Niccolò V, a due passi dalla porta Sant’Anna,
in Vaticano, detto anche il torrione degli svizzeri poiché vicino alla
caserma delle guardie del Papa. Il suo predecessore più prossimo si
chiama Commissione per le opere di religione.
Lo IOR vero è proprio nasce in un periodo cupo e drammatico:
il 1942, in piena guerra, quando a Roma si patiscono la fame, la miseria
e i bombardamenti, come quello devastante del quartiere di San Lorenzo.
L’atto di fondazione ufficiale è costituito da due chirografi, ovvero
due brevi documenti scritti dal Pontefice di proprio pugno con valore di
atto giuridico firmati da papa Pacelli, il primo del 27 giugno 1942.
Perché quella riforma proprio in piena guerra? C’era l’esigenza di una
trasformazione della Commissione in senso autonomo. Lo IOR è infatti
fin da subito definito “ente centrale della Chiesa cattolica”. In
pratica significa che in considerazione dell’autonomia che gli viene
riconosciuta, l’ente non è considerato un braccio, un ufficio, una
struttura della Curia romana. Non è, propriamente, Santa Sede, ovvero
organo del governo della Chiesa. Il che non vuol dire che chi la dirige
non sia sottoposto al controllo della Santa Sede. A sovrintendere
sull’ente infatti, fin dalla sua fondazione, ancora oggi, vi è una
commissione di cardinali che risponde alla Segreteria di Stato e in
ultima istanza al Papa.
Anche in questo caso, come i precedenti atti sovrani, i pontefici
non hanno inteso costituire un’entità economica a fini di lucro, bensì
un ente svincolato dalla logica del profitto. Lo scopo di quella che
ai sensi del diritto canonico e giuridico è una vera e propria
fondazione, è quello di “provvedere alla custodia e all’amministrazione
di capitali destinati ad opere di religione e di carità”. Insomma lo IOR
è un ente che si regge con le proprie norme, distinto dalla Curia
romana e non ha con questa alcun rapporto organico, né funzionale né
economico (al punto che paga perfino un congruo affitto alla Santa Sede,
proprietaria del torrione e degli altri uffici all'interno del Palazzo
Apostolico). Ogni responsabilità patrimoniale verso terzi è imputabile
soltanto all’Istituto. I redditi netti ricavati dall’amministrazione di
tali beni sono destinati “ad pias causas”, secondo l’intenzione dei
fondatori, che devono esplicitamente dichiararla con atto scritto nel
momento in cui trasferiscono o affidano i beni all’Istituto. La riforma
nasce in piena guerra anche perché proprio in guerra nascono esigenze
organizzative più stringenti e riservate per finanziare gli enti e gli
istituti ecclesiastici.
Con successivo chirografo, il 24 gennaio 1944, papa Pacelli dispone lo Statuto.
L’Istituto ha sempre come scopo (articolo 2) “la custodia e
l’amministrazione dei capitali, depositati in titoli od anche in
contanti, e destinati ad opere di religione e di cristiana pietà”.
In pratica si prevede che il nuovo ente finanziario possa gestire
depositi in danaro e titoli per conto di istituti religiosi, enti
ecclesiastici, prelati e dipendenti del Vaticano, e si prefigura la
possibilità di assunzione di “laici”. Cardinali, prelati, parroci,
religiosi, membri di congregazioni, suore e laici legati al mondo
cattolico lasciano i propri risparmi nella nuova banca del Papa, (che
banca propriamente non era). Secondo Benny Lai lo IOR acquisì anche un
nuovo ruolo, quello di finanziare gli aiuti a tutte le Chiese del mondo,
persino quelle di Hiroshima e Nagasaki.
Seconda parte. L'era di Spada
Nel Dopoguerra allo IOR comincia a emergere il ruolo di Massimo Spada. I
volumi e gli articoli usciti su di lui lo dipingono con un principe, un
esponente della nobiltà nera papalina. In realtà, nonostante il
cognome Spada sia il nome di una famiglia nobile molto legata ai papi,
Massimo Spada non ha niente a che fare con quella casata. Prima
di essere chiamato in Vaticano era un modesto agente di borsa, figlio a
sua volta di un agente di cambio. Assunto in Vaticano nel ’29, aveva
fatto carriera ed era diventato segretario amministrativo dell’Istituto,
carica che equivale a quella di amministratore delegato. Sopra di lui
c’era solo il cardinale Alberto Di Jorio, che però era impegnato anche
in un altro ufficio finanziario del governo della Curia romana,
l’Amministrazione Speciale della Santa Sede, e - almeno all'inizio - lo
lasciava fare. In quel periodo verrà assunto anche Luigi Mennini, che
era segretario ispettivo (una sorta di direttore generale, in pratica il
vice di Spada), altro protagonista della storia dello IOR.
Tra i due, molto diversi di indole e di carattere, ci fu sempre un certo dualismo, una certa rivalità.
Figlio di un capostazione, Mennini aveva 14 figli (tra cui uno divenuto
nunzio apostolico a Londra e un altro dirigente dell’Ambrosiano).
Piccolo di statura, con due baffetti corti all'inglese, aveva un fare un
po’ pretesco e aveva l’abitudine di parlare sottovoce, come in un
confessionale. La sua conoscenza dell’Istituto era capillare e immensa.
Spada, al contrario, era sanguigno ed esuberante, un romano de Roma
molto mondano. Un gigante con la panza, ma con un grande carisma sui
dipendenti. Grazie a lui, negli anni ’50, gli organismi economici del
Vaticano comprano partecipazioni azionarie e immobili in tutta Italia
per far rendere il patrimonio di Pietro. Al tempo in cui la legge
consentiva di cumulare le cariche in maniera illimitata, Spada girava
l'Italia in una settantina di consigli di amministrazione a bordo di una
Lancia con autista attrezzata con tanto di lettino per riposare il suo
corpo da peso massimo.
Il tramonto della stella di Spada è legato ai suoi legami con
Sindona, il bancarottiere siciliano passato dall’altare alla polvere,
rivelatosi connivente con la mafia italo-americana, che non esitò a far
uccidere l’avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato dalla Banca d’Italia
liquidatore della Banca Privata Italiana. E’ proprio quest’ultima banca
milanese monosportello, con sede in Via Verdi, dietro la Scala, uno dei
primo dei legami tra lo IOR e Sindona. Un legame che costò caro a Spada,
poiché Di Jorio gli diede il benservito quando quest'ultimo gli propose
di acquisire la maggioranza della banca milanese. Ne seguì che Spada,
sconfessato da Di Jorio, venne costretto a rivendere la quota di
minoranza che già avevano allo stesso Sindona. Il quale aveva
aspirazioni di banchiere internazionale e l’acquisirà tramite la sua
holding Fasco A.G., con sede in Liechtenstein. In pratica Sindona,
definito da Andreotti “il salvatore della lira”, nel pieno della sua
stagione più smagliante, quando ancora non si sapeva dei suoi legami con
la mafia americana e del fatto che stava svuotando i depositi dei
correntisti per le sue avventure finanziarie, acquista o favorisce la
vendita della piccola galassia di partecipazioni azionarie dell’Istituto
vaticano, che ormai davano più perdite che utili.
Bisognava dismettere quella galassia (che comprendeva anche due
cotonifici e alcune imprese chimiche importanti), anche se le cedole e
gli utili servivano da linfa economica del ministero petrino,
che non è mai stato particolarmente ricco, nonostante quel che si dice.
Oltretutto il governo di Centrosinistra di Moro aveva ripristinato
l’imposta per tutte le rendite di capitale che il Vaticano possedeva in
Italia (la cosiddetta cedolare). le partecipazioni non convenivano più.
Papa Paolo VI spingerà molto per la dismissione.
Intanto il sodalizio con Sindona costerà nel 1980 a Spada (che si farà
tre settimane di carcere) e nel 1981 a Mennini (rappresentante dello IOR
al tempo in cui questi aveva una partecipazione di minoranza nella
Banca Privata Italiana) guai giudiziari con accuse per concorso in
bancarotta fraudolenta. La sentenza per Mennini verrà poi annullata
dalla Cassazione, che sancì un difetto di giurisdizione della
magistratura nei suoi confronti. Ma i guai maggiori, per lo IOR, devono
ancora arrivare.
Terza parte. Marcinkus e l'Ambrosiano
Alla fine degli anni Sessanta arriva alla presidenza dello IOR un prelato, già officiale della segreteria di Stato, di nome Paul Casimir Marcinkus.
Era nato a Cicero, un sobborgo povero e violento di Chicago in cui
aveva regnato Al Capone, il 15 gennaio del 1922. Marcinkus è morto a Sun
City, in Arizona il 21 febbraio 2006, dove era stato assegnato – su sua
richiesta - in qualità di coadiutore della piccola parrocchia di San
Clemente. Una sorta di ritorno alle umili origini familiari. Il padre
Mykolas, lituano, era emigrato in America nel 1908 e aveva trovato un
posto da lavavetri nei grattacieli di Chicago.
Dopo qualche periodo in Bolivia e in Canada,
al servizio della diplomazia vaticana, Marcinkus era rientrato nel 1952
dentro le mura leonine, sempre al servizio dell’amministrazione della
Santa Sede, alla sezione inglese della Segreteria di Stato.
Nel Palazzo Apostolico collaborerà con monsignor Giovan Battista
Montini, il futuro Paolo VI, prima che questi divenga arcivescovo di
Milano. Ha spiccate doti organizzative. Nel 1963 fa costruire Villa
Stritch, dal nome di un vescovo di Chicago, destinato a ospitare il
clero americano in viaggio a Roma. All'inaugurazione partecipano alcuni
membri della famiglia Kennedy e i Rockfeller.
Alto un metro e ottantasei, robusto, fumatore di puzzolentissimi
sigari, amante del golf ,del tennis e degli stornelli di Claudio Villa, si occuperà dei viaggi e della sicurezza dei viaggi di Paolo VI,
cui farà anche da guardia del corpo in virtù del suo fisico. Il
fotoreporter Giancarlo Giuliani, durante un viaggio di Giovanni Paolo II
nelle Filippine, lo vide sferrare (per scherzo) un pugno nello stomaco
al collega Vittoriano Rastelli che lo lasciò senza fiato per parecchio
tempo.
“Di me hanno parlato come di Al Capone”, disse
Marcinkus in un’intervista, quella in cui commenta che la Chiesa non si
mantiene con le Ave Marie, frase ormai celeberrima che finirà per
rimbalzare in tutti i libri sullo IOR. E in effetti Marcinkus – secondo
la deposizione dell’amante di un boss della banda della Magliana - è
stato accusato persino di essere coinvolto nel rapimento di Emanuela
Orlandi, la giovane figlia di un dipendente del Vaticano scomparsa
misteriosamente. Manca solo l’omicidio Kennedy.
Nel saggio dedicato alla finanza cattolica di Giancarlo Galli, l’ex
presidente dello IOR Angelo Caloia racconterà di aver spiegato a
monsignor Stanislao Dziwisz, allora segretario di papa Giovanni Paolo
II, che secondo lui era solo una grande incompetente (e che don
Stanislao assentì in silenzio, con un cenno del capo).
Di certo il suo nome resta indissolubilmente legato a quello di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano.
Il prelato di Chicago incrementò la partecipazione azionaria dello Ior
nell’istituto di credito milanese, sfiorando l’uno per cento del
capitale. Ma soprattutto Calvi e Marcinkus siederanno fin dalla
fondazione anche nel cda della Cisalpine Overseas Bank di Nassau, alle
Bahamas, la cabina finanziaria dell’impero parallelo di Roberto Calvi,
di cui lo IOR ha il 2,5 per cento del capitale. A partire dal 1971
l'Istituto vien coinvolto come tramite di una serie di operazioni
effettuate dal Banco Ambrosiano: depositi fiduciari (cosiddetti “back to
back”, per aggirare il divieto di esportazione di valuta), linee di
credito, detenzione fiduciaria di azioni. Una spirale che vede lo IOR
sempre più compromesso in azioni sempre meno trasparenti da parte di
Calvi, che andava tessendo la sua tela di ragno, la sua rete off shore
di società occulte a doppio e triplo fondo. Una rete destinato a far
precipitare l’Ambrosiano in una bancarotta da oltre 1600 milioni di
dollari, coinvolgendo anche lo IOR.
La spirale finirà per costargli la vita, dopo la
rocambolesca fuga verso la Svizzera e la morte (molto probabilmente
l’omicidio) per impiccagione sotto il ponte dei frati neri di Londra.
Sono passate alla storia le lettere di patronage di Calvi che
attestavano che lo IOR stava dietro i debiti dell’Ambrosiano,
contro-bilanciati dai documenti di manleva (in inglese) esibiti dai
funzionari dello IOR Luigi Mennini e Federico de Strobel. Con essi il
banchiere riconosceva che nella faccenda lo IOR aveva avuto un ruolo
puramente fiduciario. Ci fu chi sostenne che quelle contro-lettere di
favore non impegnavano, in realtà, il Banco, essendo firmate a titolo
personale da Calvi. Ma in ogni caso lo IOR rifiutò di pagare. Per
l’Ambrosiano il crack fu inevitabile.
La relazione alla Camera nella seduta del 2 luglio 1982 presieduta da
Nilde Iotti da parte di Beniamino Andreatta, allora ministro del Tesoro
del Governo Spadolini, in risposta alle numerose e infuocate
interpellanze sul caso Calvi, fu piatta, lucida e articolata. Andreatta
ricordò che il Banco era stato sottoposto ad accertamenti fin
dall’aprile del 1978, quando già si lamentavano deficit di informazioni
sull’attività svolta all’estero con resistenze a rispondere alle domande
degli ispettori. Il drenaggio di risorse finanziarie del Banco
era avvenuto attraverso il canale estero che faceva capo al Banco
Ambrosiano Holding di Lussemburgo, perdendosi nei rivoli dello sciame
di consociate estere. L’azionariato della banca di piazzetta Ferrari era
estremamente frazionato: “Era possibile esercitare il controllo
disponendo di un pacchetto azionario contenuto”. La situazione, spiegò
Andreatta, “si presenta aggrovigliata per un complesso di operazioni
anomale e spericolate fortemente accentrate e personalizzate al di fuori
di ogni logica bancaria”. Lo IOR fa capolino quasi alla fine del
discorso. Andreatta annuncia l’incontro tra i commissari e l’istituto
vaticano, quella mattina stessa: “Il Governo si attende che vi sia una
chiara assunzione di responsabilità da parte dello IOR che in alcune
operazioni con il Banco Ambrosiano appare assumere la veste di socio di
fatto”. I giornali, il giorno dopo, titolarono a nove colonne.
Quarta parte. Il coraggio di Casaroli
Vaticano e IOR alla fine non smentirono del tutto un ruolo di sostegno
rispetto alle esigenze di ripianare le perdite del Banco Ambrosiano, pur
declinando ogni responsabilità. Fu il segretario di Stato Agostino Agostino
Casaroli, l’uomo che ebbe “il coraggio della pazienza” e che contribuì insieme
a papa Wojtyla a far cadere il muro di Berlino gettando il comunismo nel
generale discredito, a voler venire per primo a patti con lo Stato e ad
arrivare a un accordo.
Una decisione osteggiata da una parte della Curia, a
cominciare dallo stesso Marcinkus. Ma il cardinale Casaroli non desistette dalla decisione.
Aveva dalla sua molti esponenti della Chiesa, tra cui il cardinale di New York
O’Connor, preoccupato anche che le vicende torbide dello IOR si riflettessero
in maniera negativa sulla partecipazione dei fedeli e sulle offerte dell’Obolo
di San Pietro.
“Casaroli”, scrive Carlo Bellavite Pellegrini,
nella sua Storia del Banco Ambrosiano (Laterza) “si mosse con estrema abilità in una situazione molto
difficile”.
Con molta lungimiranza
il primo segretario di Stato di Wojtyla aveva intravisto che la soluzione del
problema poteva essere una commissione che trattasse direttamente con le
autorità italiane. “Il segretario di Stato si rese conto che lo IOR si era
cacciato in un guaio di grandissime dimensioni e stava usando tutta la sua
grande intelligenza e la sua consumata abilità diplomatica per venirne fuori”.
Ma ci sono anche altre considerazioni che riguardano l’uomo Casaroli: “Senso
della giustizia e della misura” come scrive Bellavite Pellegrini, “volontà di
dialogo, ma anche il desiderio di arginare Marcinkus”.
Casaroli fu rapidissimo
nel mantenere l’impegno assunto: il 13 luglio 1982 annunciò che il Vaticano
aveva nominato tre esperti che avrebbero esaminato il rapporto tra l’Ambrosiano
e lo IOR. Il successivo 19 luglio
Casaroli convocò nuovamente l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Chelli
e gli comunicò che i tre saggi (uno
di questi era lo svizzero Philippe De Veck, già presidente dell’Ubs e futuro
vicepresidente dello IOR) stavano facendo un ottimo lavoro. Nella seduta alla
Camera di venerdì 8 ottobre 1982, il ministro Andreatta, in un'aula semideserta, approfondirà i
principali aspetti “di una vicenda che è di complessità pari alla sua gravità”.
Un’esposizione tormentata, quella dell’esponente cattolico e democristiano, già
consigliere economico di Aldo Moro, priva di timori reverenziali nei confronti
del Vaticano. Quel venerdì le cifre colossali della mala gestione
dell’Ambrosiano esposte dal ministro che aveva imposto il suo scioglimento e la
sua liquidazione risuonarono nell’aula: “Le consociate del gruppo Ambrosiano
dovevano dare 743 milioni di dollari alla Ambrosiano Spa; 788 milioni di
dollari alle banche dell’euromercato; 102 milioni di dollari ad altre
consociate (Banca del Gottardo, Credito Varesino, Banca Cattolica del Veneto).
Il tutto per un totale di 1.633 milioni di dollari. Le consociate, a loro
volta, dovevano avere dallo IOR e da sue patrocinate 1.159 milioni di dollari”.
Come detto, dopo aver chiesto un parere
interno ai tre saggi, per dirimere la questione Casaroli propose una
commissione di esperti che indagasse “in spirito di giustizia e di dialogo”.
Nacque così la commissione mista italo-vaticana, che venne costituita con atto
internazionale il 24 dicembre 1982 e che lavorò fino all’autunno dell’anno
successivo, producendo un articolato documento finale. Della commissione, a
nome del Vaticano, faceva parte monsignor Renato Dardozzi, che incontreremo più
avanti. La questione venne chiusa il 25 maggio del 1984, a Ginevra.
Il verbale
di quello che è passato alla storia come l’Accordo di Ginevra, è molto
schematico. Le parti “addivengono al presente accordo in uno spirito di
reciproca conciliazione e collaborazione” si legge nell’accordo. Premesso che
“IOR, mentre riconferma di non aver responsabilità in ordine a tale dissesto e
di esservisi trovato coinvolto involontariamente, pur tuttavia, unicamente in
ragione della sua speciale posizione, ha manifestato la sua disposizione ad
effettuare un contributo volontario nella misura appresso precisata” . Lo IOR pagò 250 milioni di
dollari, non a titolo di risarcimento ma come atto di “contributo volontario”,
in cambio della rinuncia da parte delle banche a qualunque futura rivalsa.
Casaroli, l’artefice del progetto di risanamento dello IOR, aveva preso due
decisioni fondamentali. Quella di risarcire l’Ambrosiano e quella di assumere
dei laici per far fare allo IOR un cammino di trasparenza e di legalità. Ora si
trattava di avviare il nuovo corso e riorganizzare le finanze vaticane. L’ora
del rilancio dello IOR nel senso della trasparenza e della competenza affidata
a dei laici stava per scoccare.
Quinta parte. Gli "gnomi" laici nel torrione
La scelta del segretario di Stato Casaroli per rilanciare l'Istituto e
avviarlo alla massima trasparenza ed efficienza cade su un banchiere
milanese originario di Castano, un Comune tra Novara e Milano di cui in
gioventù è stato giovanissimo sindaco. Si chiama Angelo Caloia.
E' docente di Economia politica all'Università Cattolica e presidente
del Mediocredito Lombardo, una banca del gruppo Cariplo specializzata
negli impieghi alle piccole e medie aziende. Cresciuto alla scuola del
cardinale Martini, ha fondato il gruppo Cultura Etica e Finanza, di cui
fanno parte anche il presidente dell'Ambroveneto Giovanni Bazoli ed
economisti di spicco come Alberto Quadrio Curzio e Tancredi Bianchi.
Il presidente del Mediocredito, che ha 50 anni, ha tutte le carte in regola per dirigere lo IOR.
Poliglotta, parla perfettamente l’inglese, presupposto indispensabile
per muoversi nella babele della Curia vaticana e della finanza
internazionale (tra l’altro è la lingua delle riunioni del Consiglio di
Sovrintendenza). E’ anche consulente del vescovo ausiliare e
pro-vicario generale di Milano, monsignor Attilio Nicora, amministratore
dei beni della Curia milanese. Per prima cosa Caloia lavora con
Casaroli e altri membri della Curia romana al nuovo Statuto, presupposto
indispensabile per le riforme. La nuova "governance" contempla un sistema “duale”, come si dice in gergo bancario. Sul Consiglio di Sovrintendenza (in pratica il consiglio di amministrazione) vigila infatti la Commissione Cardinalizia,
che si limita a verificare se il consiglio obbedisce alle norme
statutarie. In pratica la Commissione Cardinalizia, da consiglio di
amministrazione, (quale era dal 1942 e prima ancora) si trasforma in
commissione di vigilanza o, se vogliamo, in organo che riunisce i poteri
dell’assemblea, per verificare la fedeltà allo Statuto dell’Istituto,
nomina il Consiglio di Sorveglianza, decide il riparto degli utili,
esamina ed approva il bilancio annuale.
Lo Statuto prevede, all'articolo 9, anche l'istituto del
Prelato, figura che fa da ponte tra le due commissioni, partecipando
alle riunioni della prima per riferire alla seconda, con poteri
consultivi e senza poteri amministrativi come avveniva precedentemente.
La carica viene affidata a monsignor Donato de Bonis, un sacerdote
originario della Basilicata che era entrato allo Ior chiamato dal
cardinale di Iorio negli anni '50 e d era divenuto il vice di Marcinkus.
Casaroli sceglierà anche i nomi degli "eminentissimi cardinali". Oltre
allo stesso segretario di Stato, presidente è Bernardin Gantin. Ad essi si aggiungono il venezuelano José Rosalio Castillo Lara, lo spagnolo Eduardo Martinez Somalo (cardinale camerlengo) e il cardinale di New York Joseph O’Connor.
Il Consiglio di Sovrintendenza è composto, oltre che da Angelo Caloia, dallo svizzero Philippe de Veck (già presidente Ubs), dall'americano Thomas Macioce (supreme
knight dei Cavalieri di Colombo, la grande associazione di beneficenza
americana che in consiglio ha praticamente un posto fisso), dal tedesco Theodor Pietzcker, direttore generale della Deutsche Bank e dal basco José Angel Sanchez Asiain, vicedirettore del Banco di Bilbao Vizcaja. Il nuovo Consiglio degli "gnomi laici" si riunisce ufficialmente per la prima volta nel torrione Niccolò V il 18 luglio 1989.
Con la prima riunione in pratica lo IOR esce da un periodo di
commissariamento e congelamento durato sette anni. La stampa
internazionale parla di rivoluzione in Vaticano. “Per la prima volta
nella sua storia centenaria”, scrive Angelo Pergolini sulla rivista Espansione,
“l’istituto finanziario della Santa Sede non è retto da porporati ma è
affidato a un gruppo di laici. Tutti uomini di fede, s’intende, ma
soprattutto banchieri, ben conosciuti sulle principali piazze
finanziarie e ben addentro alla comunità internazionale degli gnomi”.
Sesta parte. Le prime riforme
Lo Ior è l’acronimo di Istituto per le Opere di religione. Il termine “Opere di religione”
ha un doppio significato. Da un lato vuol dire azioni di carità, di
apostolato e di pastorale, come il sostentamento di una diocesi, di una
parrocchia, l’apertura di un oratorio o di una scuola parificata, di un
centro di accoglienza, di un ospedale, di una casa famiglia per ragazze
madri, il restauro di un luogo di culto e via dicendo. Dall’altro le
‘opere di religione’ vanno intese nel senso di diocesi, di
congregazioni, di missioni, di tutte quelle realtà che operano per il
bene della Chiesa e della società. Insomma: alle opere per le opere.
L’obiettivo è quello di offrire un servizio finanziario alle realtà
religiose della Chiesa cattolica sparse in tutto il mondo, senza che ci
siano intenti commerciali, secondo un rapporto di condivisione e di
giusta ripartizione degli oneri ma anche dei rendimenti di questo
servizio. Se poi questa azione di servizio alla comunità ecclesiale si
risolve anche in un risultato di bilancio, tale risultato positivo
ritorna nuovamente alla Chiesa, perché viene messo formalmente a
disposizione della Commissione cardinalizia e quindi del Papa, perché lo
utilizzi per i fini di bene della Chiesa e delle sue necessità. Ecco
perché lo IOR è una realtà non profit. Se c’è un risultato ritorna alle
realtà ecclesiali. Questa lunga digressione serve a capire quali sono i
binari entro i quali deve muoversi il nuovo consiglio di Sovrintendenza
dello Ior presieduto da Angelo Caloia. Il nuovo
presidente cerca innanzitutto di svecchiare l’Istituto in nome della
trasparenza e dell’efficienza. Al posto dell’ottantenne Luigi Mennini
Caloia porta alla direzione generale Giovanni Bodio, 67
anni, che era stato con lui al Mediocredito Lombardo, già vicedirettore
della Cassa di Risparmio e presidente di Finreme (una finanziaria del
Mediocredito Lombardo).
Quando, il 30 aprile del 1992, Bodio, a 70 anni, termina il suo mandato
per raggiunti limiti d’età, Caloia assume ad interim il ruolo. Due anni
dopo, il Consiglio di Sovrintendenza nomina il bergamasco Andrea Gibellini,
61 anni, bocconiano con un’esperienza quarantennale alla Popolare di
Bergamo (dove era entrato a 22 anni). La sua esperienza allo Ior durerà
poco. E così Caloia individua un terzo direttore generale, l’umbro Lelio Scaletti,
una leggenda dell’Istituto, uomo di comprovata professionalità e
fedeltà alla Chiesa, legato da un rapporto di stima e di fiducia ai
cardinali Tardini e Casaroli, assunto allo Ior nel dopoguerra.
Per il banchiere del Mediocredito Caloia, occorre mettere mano a un
processo di riforme per aumentarne l’efficienza, la trasparenza e la
redditività. Ottenuto il disco verde da Casaroli, Caloia accelera sul
processo di rinnovamento. Sul piano finanziario tra le prime mosse della
presidenza e della direzione c’è quella della messa a maggior reddito
di una quota crescente della liquidità, in precedenza investita a breve
termine mediante semplice acquisto di titoli obbligazionari a rischio
contenuto. In pratica l’Istituto si limitava a incassare le cedole dei
titoli senza fgestirle più di tanto. Caloia introduce moderni metodi di
gestione patrimoniale. Per facilitare il compito nel torrione ha
lavorato un team di alto livello della società di revisione contabile
Peat Marvick, Il rappporto Peat Marvick elenca una lunga serie di
consigli per migliorare e ammodernare la struttura operativa e
contabile, a cominciare da un organigramma con compiti e funzioni
procedurali (con la gestione Marcinkus tutto era più indefinito e spesso
le funzioni si accavallavano), da un manuale di istruzioni, da maggiori
indicazioni sulla politica degli investimenti. Occorreva poi
un’anagrafe del patrimonio immobiliare, ulteriori controlli interni e
anche un inventario. Tra gli altri suggerimenti la necessità di dotarsi
“di un articolato piano di conti” e soprattutto di “nuovi principi
contabili (quelli attuali sono inconsistenti)”, la radiografia dei conti
“dormienti”, la riduzione delle giacenze in contanti. Bisognava operare
sul piano della sicurezza, dell’illuminazione e persino degli
avvisatori di fumo.Verrà anche istituito un servizio interno di
ispettorato incaricato di esercitare controlli e verifiche sulla
consistenza dei valori, sulla regolarità formale e sostanziale delle
scritture contabili e dei contratti, sulla correttezza delle condizioni
applicate ai rapporti che generano interessi attivi e passivi e sulle
commissioni. A fine anno l’utile complessivo crescerà notevolmente.
Settima parte. L’affare Enimont
Nel 1990, quando Macioce, venuto a mancare, viene sostituito dal “supreme knight” dei Cavalieri di Colombo Virgil Dechant, i nuovi uomini dello Ior hanno giù avuto modo di vedere i primi risultati del nuovo corso. Sempre nel dicembre del 1990, diviene segretario di Stato il cardinale Angelo Sodano, che assicurerà a Caloia diciannove anni di gestione dello Ior e lo sosterrà sempre, anche nei momenti più difficili.
Il primo maggio 1991 il regolamento interno e il relativo organigramma sono operativi, dopo la delibera del Consiglio di amministrazione, con la nuova distribuzione delle funzioni di responsabilità. Sotto il direttore generale ci sono cinque capi ufficio responsabili di altrettanti dipartimenti: Servizi esterni, Servizi interni (quest’ultimo guidato da un prelato, monsignor Recchia), Contabilità generale e Banche, Sistemi informativi, Titoli (il settore più delicato, insieme con la Tesoreria).
Dopo la vicenda dell’Ambrosiano, i consiglieri di sovrintendenza sanno che uno dei principali scopi del nuovo Ior è quello di ripristinare l’immagine di affidabilità nei confronti dei depositanti. Viene così messa in atto una “delicata opera” per riconquistare la fiducia di chi ha affidato risorse all’istituto ed era stato turbato dalle vicende legate al crack Ambrosiano. Per l’uso della firma sociale, la firma singola è attribuita unicamente al presidente del Consiglio di Sovrintendenza nella sua qualità di legale rappresentante dell’istituto. Tale prerogativa spetta dunque a Caloia, che però può utilizzarla solo per gli atti di rappresentanza legale. Per tutto il resto, come per gli altri responsabili, vale il principio della doppia firma, dal direttore generale fino ai capi ufficio, per maggior sicurezza nelle operazioni.
Con l’arrivo di Caloia, monsignor Donato De Bonis aveva abbandonato la funzione di segretario generale che deteneva dal 1970 ed esercitava le funzioni di Prelato, carica, come abbiamo visto, contemplata dallo Statuto. De Bonis fa parte della vecchia guardia dello Ior ed è l’unico del vecchio quartetto di comando che ancora lavora nel torrione (Marcinkus, Mennini e De Strobel ormai non ci sono più). Sulla carta ha perso i poteri amministrativi, ma mantiene intatto su molti dipendenti il carisma accumulato in tanti anni dentro l’Istituto e la Curia vaticana. “Molti dipendenti subivano una sorta di soggezione psicologica”, ricorderà il banchiere milanese nel libro “Finanza Bianca” di Giancarlo Galli.
Sul prelato vigila anche un altro prelato, monsignor Renato Dardozzi, un dirigente della Stet che aveva abbracciato il sacerdozio a 51 anni ed era diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, oltre che uno dei consulenti finanziari più fidati del cardinale Casaroli e poi del cardinal Sodano. Dardozzi si accorge che nell’Istituto erano stati aperti i conti di alcune “fondazioni” impropriamente dette che in realtà altro non erano che depositi serviti in alcuni casi a effettuare passaggi di denaro per sospette operazioni di riciclaggio, Caloia e Dardozzi, insieme a un ristretto numero di uomini fidati dell’Istituto, cominciano a “tallonare” il prelato e a frugare con discrezione nelle sue operazioni. Quando si verrà a capo della vicenda, un dettagliato rapporto consegnato alla segretria di Stato porterà De Bonis ad essere “promoveatur ut amoveatur” prelato dell’Ordine di Malta. Più tardi, quando la Procura busserà alle porte del Vaticano, il processo Enimont rivelerà che si trattava di titoli di Stato consegnati da uomini della Ferruzzi (Luigi Bisignani, C. S. e Sergio Cusani) nelle mani di De Bonis. I titoli, dopo esser stati cambiati, finivano in successivi conti svizzeri e da lì ad importanti uomini politici italiani. Si trattava di parte della maxi tangente Enimont, la madre di tutte le tangenti come disse Di Pietro al processo. La Procura di Milano presentò una serie di rogatorie che vennero accolte dal Vaticano. La piena collaborazione dello IOR portò all’individuazione di gran parte di quel fiume di denaro. De Bonis e il presidente della Commissione Castillo Lara sosterranno sempre di essere stati raggirati dagli uomini dei Ferruzzi (che al processo Enimont avvaloreranno questa versione). Ma come abbiamo detto, anni prima Caloia e Dardozzi, quando ancora non sapevano da dove venivano e dove finivano quei titoli, ma avevano capito che si trattava di possibili operazioni di riciclaggio, erano comunque riusciti a ottenere l’allontanamento dallo Ior di de Bonis. Gli amanti del genere, possono ritrovare la vicenda in libri, saggi e articoli usciti sull’argomento. Una pubblicistica che spesso e volentieri inserisce documenti veri in un contesto impreciso, fuorviante e a volte capziosamente ideologico.
Fatto sta che, superata la grana “Enimont” (che peraltro spinse definitivamente il Consiglio di Sovrintendenza e la Commissione cardinalizia a introdurre regole di controllo e trasparenza ancor più restrittive), l’Istituto, nel 1993 riprese il suo processo di rinnovamento. Un anno dopo, per volere del Consiglio di Sovrintendenza e della Commissione dei Cardinali, arrivarono anche i revisori “esterni” dei conti: gli austeri e inflessibili analisti svizzeri della Price Waterhouse & Cooper, che con stampo calvinista analizzarono i bilanci fino all’ultimo numero prima di dare il loro nulla osta.
Ottava parte. La ristrutturazione
Dopo l’approvazione del nuovo statuto e il suo recepimento nella riorganizzazione della Curia voluta da Wojtyla e contemplata nella costituzione apostolica Pastor bonus,
i tre grandi progetti messi in campo dalla presidenza Caloia sono
l’informatizzazione dell’Istituto, il riordino contabile-gestionale e la
revisione organizzativa. Ad essi si aggiunge la ristrutturazione della
sede dello IOR.
Il progetto di restauro dell’intera fortezza papale
rinascimentale in sui ha sede l’Istituto, che era stata fatta costruire
dal papa umanista Niccolò V per proteggere il palazzo Apostolico, viene
suddivisa in tre lotti riguardanti il piano attico, il piano terra e il
piano centrale.
Il primo lotto si conclude sul finire dell’estate del 1993, con il trasferimento del Centro elaborazione dati e gli uffici collegati.
Contemporaneamente si provvede al trasferimento degli Archivi
(dislocati ai Propilei, per renderli idonei al voluminoso materiale
storico dell’Istituto che fino ad allora era situato nei piani inferiori
del torrione). E così, liberati i locali, si provvede al restauro e
all’arredamento del piano terra, dove vengono sistemate le 18 casse a
disposizione della clientela, il servizio titoli, il caveau e i servizi
tecnici, secondo il progetto dell’archistar Michael A. Lack.
Il nuovo IOR verrà ultimato nell’estate del 1996. Una struttura ipermoderna celata dentro un maniero del Rinascimento e sorvegliata discretamente da telecamere a circuito chiuso. Come ha scritto Aldo Maria Valli nella sua storia dello IOR (Il forziere dei papi,
Ancora editore), “se all’esterno il torrione è più o meno come seicento
anni fa, e ti spetti che da un momento all’altro spunti un alabardiere
pronto a chiederti la parola d’ordine, all’interno ci si trova in un
ambiente a metà tra lo Space Center della Nasa e una chiesa”.
Un altro passo verso il nuovo IOR è il
nuovo sistema informatico,
divenuto operativo già entro la fine del 1993. Il processo di
informatizzazione si lega anche al processo di trasparenza, fortemente
voluto fin dall’inizio da Caloia, de Veck e dai membri della commissione
cardinalizia, fin da quando ne facevano parte il cardinale Casaroli e
il cardinale O’Connor. Le nuove procedure informatiche, con
l’installazione di un database SQL, permettono già nel 1992 l’anagrafe
generale della clientela. Dall’aprile 1992 si erano intensificate anche
le procedure per evitare operazioni “sporche” o “improprie”. Il
regolamento interno prevedeva il divieto di maneggiare somme superiori a
un certo limite senza l’autorizzazione del consiglio di sovrintendenza e
della presidenza, l’informatizzazione di tutte le operazioni (anche per
garantirne la tracciabilità), una gestione il più possibile collegiale e
sempre controllata per evitare altri “casi de Bonis”, la “doppia firma”
per le operazioni più delicate, che dovevano essere sempre condotte da
almeno due dirigenti corresponsabili.
Era stato anche introdotto il protocollo internazionale “Know your customer”
(KYC), l’anagrafe dei conti che impone di conoscere l’identità, la
performance, la solvibilità, le potenzialità, la provenienza del
capitale e altri dati sensibili di chi entra in contatto con l’istituto.
E soprattutto, come abbiamo già visto, i bilanci dell’istituto erano
stati sottoposti ai tignosi revisori della Price Waterhouse and Cooper’s di Ginevra. I bilanci venivano assoggettati ai requisiti internazionali IAS (acronimo di International Accounting Standards).
In questo solco e in questo contesto vanno letti gli ulteriori passi di adeguamento agli standard internazionali. Come la nuova legge 127 sulla trasparenza varata nel 2011.
Già dopo l’11 settembre era stata approvata dal Consiglio di
Sovrintendenza la richiesta di adesione al Gafi (Gruppo di azione
finanziaria internazionale) con il ricorso al gruppo Moneyval del
Consiglio d’Europa per l’adesione alle misure per la lotta al
riciclaggio internazionale e al finanziamento del terrorismo. La
richiesta, inoltrata in Segreteria di Stato, ha terminato il suo iter
intorno al 2009, con la presentazione ufficiale a Bruxelles.
Nona parte. La missione internazionale
Intorno alla seconda metà degli anni ’90, quando viene completata anche la fase della ristrutturazione, lo IOR è
ormai un istituto finanziario solido e al passo coi tempi, che
contribuisce a far rendere i patrimoni ecclesiali che gli vengono
affidati con performance competitive rispetto alle banche private. Il
nocciolo duro dei clienti depositanti è costituito dalle congregazioni
femminili. Anche se molti clienti considerano ancora l’Istituto come una
sorta di banca di prodotti semplici (conti correnti e depositi di
obbligazioni) crescono gestioni patrimoniali.
La risposta della clientela è andata al di là di ogni aspettativa.
L’Istituto continua a produrre utili. Per far fronte alla
modernizzazione e alla mole di lavoro, i dipendenti sono aumentati del
25,6 per cento rispetto al 31 dicembre 1989, raggiungendo le 103 unità. I
depositi superano le 35 mila unità.
Il presidente Angelo Caloia può così dedicarsi a un altro dei suoi progetti meditati da tempo: estendere i confini dell’Istituto,
uscendo dall’Italia e aprendo alle diocesi, agli enti ecclesiali, agli
ordini, alle congregazioni senza casa madre a Roma, alle parrocchie, ai
religiosi, ai nunzi, ai sacerdoti e ai prelati del resto d’Europa e del
mondo.
Per attuare questo proposito e proporre il modello IOR di gestione,
finirà per visitare le diocesi di quasi tutto il pianeta. Il progetto
si sposava pienamente con la vocazione universale della Chiesa cattolica
e dell’opera di Giovanni Paolo II, che aveva improntato fin dall’inizio
la missione del suo pontificato a una nuova evangelizzazione, a una
nuova sfida in sintonia coi nuovi tempi della globalizzazione”.
Attraverso la diffusione universale del messaggio del Vangelo “ad gentes”,
Wojtyla continuava a portare avanti la sua instancabile opera di “globe trotter”.
Lo IOR, stabilendo contatti con le diocesi di tutto il mondo, avrebbe
aiutato a trovare le risorse per questa Chiesa che doveva rafforzarsi e
per la nuova evangelizzazione.
L’apertura internazionale dello IOR non poteva che partire da chi sta
a capo delle diocesi. Negli anni ’90 e agli inizi del Duemila le
missioni dei dirigenti IOR guidate solitamente dallo stesso presidente,
dal direttore generale Lelio Scaletti e dal direttore
dei servizi finanziari Alessandro Lombardi, giungono praticamente tutte
le diocesi del mondo: dall’Europa alla Conferenza episcopale brasiliana,
(composta da 400 vescovi), alla Conferenza episcopale argentina (che ne
conta circa 70), ai dodici vescovi di quella uruguaiana, e a quelle del
Cile, del Perù, del Messico, cui fanno capo oltre 200 presuli, fino
alle diocesi perseguitate del Medioriente e dell’Africa subsahariana,
quelle semiclandestine dell’Asia e di un’Europa dell’Est e dell’Ovest
sempre più secolarizzata, preda delle pulsioni consumistiche e
scristianizzanti”.
Alla fine del 2000 in tutto il mondo continua il processo di fusioni e acquisizioni del sistema bancario.
Un processo globale che porta necessariamente l’Istituto, in un’ottica
di diversificazione, a ristrutturare e rivedere le linee di credito. I
risultati d’esercizio sono ancora ottimi. Alla fine del primo anno del
nuovo millennio l’utile netto supera i 46 milioni di euro. Un altro
risultato lusinghiero che i membri del board consegnano alla commissione
cardinalizia a disposizione del Papa. Nel Consiglio di Sovrintendenza
dell’11 aprile 2001, il presidente e il vicepresidente dello IOR vengono
riconfermati per un altro mandato di cinque anni. Nel 2006, dopo oltre
un decennio di “vacatio” tra le mura del torrione arriverà un nuovo
Prelato: si chiama Piero Pioppo.
E’ il giovane segretario personale del cardinale Angelo Sodano.
Abbandonerà il suo ruolo, che affronta con piglio e determinazione, nel
2010, quando viene nominato nunzio apostolico in Camerun.
Decima parte. La meteora Gotti Tedeschi
Nonostante la tempesta finanziaria sui mercati di tutto il mondo, il
torrione Niccolò V si fa “tetragono” contro le cadute valutarie e
borsistiche grazie a una gestione prudente e lontana dalla finanza
creativa. L’asset allocation dei titoli della gestione patrimoniale IOR è
sempre stata all’insegna della cautela. Il che non gli ha permesso di
generare immensi profitti ma l’ha tenuta prudentemente alla larga da
avventurismi tipo hedge fund o altro.
Nel 2009 dentro il torrione dello IOR c’è un passaggio
di testimone. Arriva un nuovo presidente che attraverserà la gestione
come una meteora portandosi dietro una coda di polemiche. E’ il
banchiere piacentino Gotti Tedeschi, vicino all’Opus Dei, presidente
della filiale italiana del banco Santander, ex collaboratore di Gian
Mauro Roveraro, un banchiere molto ambizioso che si vantava di aver
contribuito alla stesura della Caritas in Veritate, collaboratore del
Foglio, dell’Osservatore Romano e persino sulla Padania, il giornale
della Lega Nord, amico dell’allora ministro dell’Economia Giulio
Tremonti, che lo aveva indicato nel consiglio di amministrazione della
Cassa Depositi e Prestiti. Gotti Tedeschi porterà il ministro Tremonti a
tenere presso lo IOR alcune lezioni di etica e finanza.
Ma poco tempo dopo l’insediamento, il banchiere piacentino finisce in
guai giudiziari, in quanto rappresentante legale dell’Istituto. Su
richiesta della Banca d’Italia la procura di Roma sequestra due somme
(per un totale complessivo di 26 milioni) perché lo IOR, sostengono i
magistrati, non ha ottemperato alle regole antiriciclaggio vigenti.
Gotti Tedeschi, dopo il sequestro, si reca in Procura per deporre
spontanemante anziché richiedere la rogatoria internazionale, più
consona allo IOR in quanto ente centrale della Chiesa, con sede e
relativa extraterritorialità in Vaticano. In base ai Patti lateranensi i
dipendenti del Vaticano, compresi quelli dello IOR, come stabilisce una
sentenza della Cassazione, non possono essere sottoposti a processo e
godono degli stessi diritti dei residenti della “Città Santa”.
Al procuratore aggiunto e al sostituto procuratore il neopresidente
dello IOR, dopo aver premesso che il suo impegno è a tempo parziale e
che non ha ancora avuto modo di vedere a fondo i documenti
dell’Istituto, assicura che con la sua gestione verrà avviata una vera e
propria “rivoluzione” nel segno della trasparenza. Per le tecnicalities
rimanda al direttore generale Paolo Cipriani, un manager bancario
proveniente dal banco di Santo Spirito che aveva lavorato anche in
Lussemburgo come broker. I rapporti tra Gotti e Cipriani si
deterioreranno per assumere i connotati di una vera e propria guerra. I
vertici dello IOR arriveranno persino a chiedere una perizia
psichiatrica sul banchiere, condotta all’insaputa del soggetto
esaminato. Profittando di una cena di lavoro gli viene affiancato uno
psicoterapeuta, vicino di casa di Cipriani, che redigerà regolare
rapporto, presentandolo come personalità affetta da “disfunzione
psicosociale” con tratti di “egocentrismo e narcisismo”.
Ha fatto bene Gotti Tedeschi a chiedere parlare ai giudici in quanto
presidente dello IOR?
Dentro le mura leonine c’è chi sostiene che forse sarebbe stato più
opportuno il ricorso alla sovranità statuale, come è stato fatto nel
1993 nei confronti della Procura di Milano con la prassi della
rogatoria, propria del rapporto tra Stati, ma anche alla stregua delle
strategie seguite di recente da altri Stati (come la Svizzera, che ha,
tra l’altro, sempre affidato a membri del governo la comunicazione coi
giudici e non del Presidente di questa o quella banca). C’è chi
sostiene, dentro le mura leonine, qualcuno indusse Goptti Tedeschi a
quel passo. Fatto sta che a posteriori quella decisione risultò assai
avventata. A chiedere le dimissioni dall’ente finanziario della Santa
Sede (che ha anche lo status di banca centrale) è lo stesso Consiglio
di sovrintendenza dello IOR, di cui fanno parte il vice presidente
Ronaldo Hermann Schmitz, Antonio Maria Marocco, Manuel Soto Serrano e
Carl Albert Anderson. La commissione cardinalizia di vigilanza, invece, è
presieduta dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato.
Un’uscita a dir poco brusca, che rivela contrasti all’interno del board,
come spiega lo stesso comunicato della sala stampa della Santa Sede:
“Un voto di sfiducia del Presidente, per non avere svolto varie funzioni
di primaria importanza per il suo ufficio”.
A seguito di ciò però si impose la riscrittura della legge 127, avvenuta
nel gennaio 2012, per rendere la Santa Sede ancora più conforme alle
regole internazionali dell’ antiriciclaggio. Il decreto, a firma del
presidente del Governatorato, il cardinale Giuseppe Bertello, rafforzata
la natura “coercitiva” delle disposizioni dell’Aif, la nuova autorità
di vigilanza interna presieduta dal cardinale Attlio Nicora. Tra le
disposizioni, l’obbligo di scambiare informazioni finanziarie in base a
protocolli di intesa.
Va detto che la legge 127 riprende in toto, quasi un “copia e incolla”,
l’analoga normativa italiana, per apportarne modifiche in senso ancor
più restrittivo. E solo così che si guadagna il responso favorevole dei
consulenti di Moneyval, l’organo del Consiglio d’Europa che si occupa
della valutazione dei sistemi di antiriciclaggio.
La fine della breve era Gotti Tedeschi, nella primavera 2012, con tutta
la sua coda di domande senza risposta e il polverone che ne è seguito,
ha coinciso con la vicenda del “corvo”, al secolo Paolo Gabriele, il
cameriere del papa trafugatore di documenti riservati dall’appartamento
del pontefice fatti planare sulle scrivanie di alcuni giornalisti, la
cui identità è stata svelata proprio in quei giorni. E proprio poche ore
dopo il fulmine a ciel sereno delle dimissioni del papa (l’11 febbraio,
la stessa data della fondazione della Commissione Ad Pias Causas, oltre
a quella dei Patti Lateranensi e dell’apparizione della Maria a
Bernadette di Lourdes) è arrivata la notizia della nomina a nuovo
presidente del barone tedesco Ernst von Freyberg (dopo nove mesi di
“vacatio”) e del rinnovo della Commissione Cardinalizia. Von Freyberg è
il nome uscito da una società di cacciatori di teste che ha esaminato
oltre quaranta profili. Ma questa è storia di ieri.