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Dello spessore che ha trovato la massima espressione nella seconda parte della versione animata diretta da Osamu Dezaki, e che ha fatto di Lady Oscar un grande classico dell’animazione non solo giapponese, capace di resistere mezzo secolo, non è rimasta neanche la superficie, consegnata a un patinato smaltato che funziona un poco solo nello scintillio dello sfarzo di Versailles e nelle scene d'insieme dall'alto, che in qualche punto appaga l’occhio, ma finisce per esaurirsi lì, un po’ fine a sé stesso, come scollato dal resto.
Questa nuova vesione di Lady Oscar, dal 30 aprile 2025 in italiano su Netflix (Studio Mappa), convince davvero poco: anche volendola immaginare pensata (ma sarebbe stato un suicidio commerciale) solo per un pubblico dallo sguardo non contaminato dai precedenti della serie animata del 1979 (giunto in Italia nel 1982), e del manga del 1972 (arrivato in Italia dopo la versione animata) i vizi superano le virtù.
Chi non conosca i precedenti rischia di capire davvero poco di questo composto indigesto di scene animate intervallate da (troppe) improbabili canzoni che riassumono, rendendo ben poca giustizia alla loro complessità, il punto di vista dei personaggi principali, in modo ingenuo e zuccheroso, che un po’ servono a riassumere un po’ a dare sfogo a disegni che rimandano a un pastone di stili molto, troppo, diversi tra loro.
A questo insieme già disarmonico si aggiungono gli excursus storici sul periodo che ha preceduto la Rivoluzione francese, molto semplificati nella scrittura, e disegnati in un modo ancora diverso, con una voce fuori campo, che amplificano un effetto collage in cui è difficile ravvisare il qualcosa di unitario che un film ancorché animato dovrebbe comunque rappresentare.
Che i precedenti siano presupposti è evidente, tanto che l’autrice del manga Riyoko Ikeda, creatrice innegabile dell’idea geniale di partenza, che non ha mai amato il primo adattamento animato, cui è comunque debitrice in quanto vero artefice del successo mondiale dei suoi personaggi, giudica questa versione più fedele all’originale.
In effetti qui ci sono tutti i cliché dello shōjo manga dell’epoca: dagli occhioni luccicosi, alle troppe lacrime molte delle quali a sproposito - se si pensa al carattere dei personaggi che abbiamo conosciuto -; ma ci sono così tanto che arrivano a tradire il pregio dell’originale: restare nel genere osando raccontare qualcosa di più e di meglio di una banale storia d'amore.
Qui quella vicenda complessa e ricca di strati, e che implicava precisione nei riferimenti storici, politica, problemi sociali, ragion di Stato, raffinata psicologia, è stata ridotta a un melenso e poco coerente intreccio di faccenducole amorose, tutte sospiri e stupori, ma senza profondità e senza drammi, che alla struttura originaria non rende affatto giustizia.
Le figure femminili, almeno nel tratto, consentono di riconoscere quelle familiari e amate dal pubblico - è evidente che chi ha disegnato le protagoniste non ha potuto prescindere dalla precedente versione animata, nel senso che ne conservano molti dettagli -, ma questa Oscar troppo ammiccante, troppo femminile nella voce, troppo sdolcinata è molto meno credibile nel suo ruolo di ufficiale di quanto fosse quella della prima serie animata.
Va molto peggio alle figure maschili tutte efebiche, ringiovanite, dai visetti affilati, tutte simili al punto da perdere personalità e caratterizzazione, sul piano fisico e psicologico. Si salva solo il conte Girodelle: damerino leccato era e damerino leccato rimane, l’accentuazione rende l’idea. André, in particolare, perde molto del suo ruolo decisivo nella crescita di Oscar e della sua solidità fisica e morale, nonché del suo punto di vista originale e sfaccettato, nel contesto prerivoluzionario, di uomo del popolo che cresce, servitore rispettato, in una casa nobiliare.
La caratterizzazione meglio riuscita nel disegno è di sicuro quella di Maria Antonietta, alla quale dona regalità la ricchezza delle vesti, certo più accurate e dettagliate, mentre il contorno rende lo sfarzo della Corte. Ma è poco per salvare l’insieme: la Lady Oscar sopravvissuta a quasi mezzo secolo di repliche ha retto all’ingiuria del tempo, non solo perché gli eroi che muoiono in battaglia restano giovani e belli, ma perché univa con efficacia, e coraggio per quei tempi, nell’animazione pensata per un pubblico femminile di preadolescenti: romanzo di formazione, romanzo storico, cappa e spada, e storie romantiche sì, ma mai disgiunte dalle questioni politiche e sociali.
Se si toglie a Oscar il travaglio della sua crescita nel maturare la coscienza sociale, che a poco a poco la fa consapevole di sé man mano che cresce nella sua singolarità di ragazza educata per un ruolo sociale maschile; se le si toglie la fatica di affrancarsi dalla rigidità di una figura paterna conservatrice e autoritaria ma rispettata e amata (complessa anch’essa ma qui rozzamente delineata); se le si toglie la difficoltà di conciliare un lavoro maschile, militare e di comando, con una femminilità che sotto la divisa c’è ma che non si può mostrare, le si nega quasi tutto: e infatti troppe delle parole che le si mettono in bocca, gonfie di una retorica che non corrisponde per niente al personaggio che conoscevamo, non sono coerenti.
Al punto che, della figura autorevole, asciutta, austera, capace di mantenere la propria solidità nonostante la profonda sofferenza interiore, resta poco meno che una caricatura, non in fatto di fisicità ma di struttura del personaggio, che ha perso qui quasi tutta la sua spina dorsale, relegata al carapace esteriore di una uniforme che veste una femminilità stucchevole e stereotipata, con le lacrime in tasca: una banalizzazione; di più: lo stravolgimento di un personaggio la cui forza stava nella sottigliezza e nella profondità psicologica, qui sparite sotto l'involucro di accuratissimi costumi.
Non solo, quello che là si fondeva in un insieme qui è staccato: la storia è uno sfondo, la politica è pressoché scomparsa, gli intrighi di Corte neanche si indovinano. Anche nell’animazione qualcosa non rende: spesso figure e sfondi (pur splendidi) si armonizzano a fatica e anche il gioco di contrapporre grisaille o quasi per il popolo e colori scintillanti per la nobiltà sembra troppo manicheo.
Di quel grande affresco animato che è stato l’anime prima maniera e anche di quell’idea che è stata alla base del manga restano solo le insegne esteriori. Poco più che un guscio, esteticamente pregevole a tratti, ma quasi vuoto.





