È facile dire ai genitori come dovrebbero educare i figli, quando però tocca a me decidere un intervento educativo, mi rendo conto della fatica e della mia fragilità. Mi capita per esempio ogni volta che c’è la sessione di esami: non è facile dire a uno studente «Mi dispiace, ma non hai superato l’esame», «Il tuo rendimento è insufficiente», «Non ce l’hai fatta». Possiamo certamente accompagnare l’esito dell’esame con paterne raccomandazioni, ma resta il fatto che dobbiamo comunicare allo studente un fallimento.
Mi chiedo, allora: lo aiuto veramente a crescere, se faccio il suo bene, facendo finta che non sia andato così male, evitandogli il trauma della bocciatura? Questa esperienza mi ha fatto sentire più vicino a quei genitori che fanno fatica a dire “no” ai loro figli, caricandosi a volte di sacrifici inopportuni e inadeguati o semplicemente concedendo cose che evidentemente non aiutano la maturazione del figlio. Facciamo fatica a dire “no” perché abbiamo paura della reazione dell’altro, temiamo che possa non amarci più, siamo spaventati dal conflitto che si potrebbe generare, abbiamo paura che la nostra immagine possa essere messa in questione.
Eppure non stiamo facendo il bene di un figlio o di un ragazzo: il “no”, cioè la regola, la norma, aiuta a darsi dei confini, lo aiuta a riconoscersi attraverso i suoi limiti, lo aiuta a sviluppare la capacità di desiderare perché non è scontato ottenere quello che vuole, aiuta a rendersi conto che esistono anche gli altri. Senza questi confini, i figli crescono alimentando un delirio di onnipotenza, incapaci di lottare, inadeguati ad affrontare le difficoltà quando la realtà non risponderà alle loro aspettative.
Proprio per questa assenza di regole, diventa sempre più frequente incontrare quello che è stato chiamato il bambino simmetrico: un figlio che non percepisce più l’asimmetria relazionale tra sé e l’adulto. Il figlio si pone sullo stesso piano del genitore, ne diventa l’amico e talvolta l’interlocutore, anche se non ha neppure un’età adeguata per esserlo. È molto difficile gestire un bambino simmetrico, proprio perché vengono meno gli argini, come il fiume che straripa. Ma proprio come il fiume, il figlio rischia di non ritrovare più il suo alveo, cioè la sua identità. Cercherò allora di lavorare anch’io su me stesso per trovare la giusta consapevolezza per dire al prossimo studente «Puoi fare meglio, torna la prossima volta!».