Per molti anni si è applicata al Libano la famosa definizione del calabrone. Che secondo Eistein (ma non è certo che fosse lui) “ha un rapporto tra la struttura alare e il peso che non è adatta al volo. Ma lui non lo sa e vola lo stesso”. Il Paese improbabile era diventato una certezza grazie a equilibrii miracolosamente precari tra le etnie e le religioni (18 confessioni religiose, di cui 12 musulmane e 6 cristiane), una spartizione scientifica del potere tra i diversi gruppi (presidente della Repubblica cristiano, capo dell’esercito musulmano sunnita, presidente del Parlamento musulmano sciita…), un pragmatismo di fondo capace di mitigare le divisioni, l’abilità nei commerci e una posizione strategica ineguagliata.
Rafik Hariri, l'economia drogata del Libano e la crisi economica
L’esplosione del porto, con la strage e le distruzioni che ha portato con sé, certifica la fine di quel prodigio. Anche perché, con un simbolismo dovuto al caso ma fin troppo azzeccato, arriva alla vigilia della sentenza sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri, ucciso a Beirut da un’autobomba, con altre 21 persone, il giorno di San Valentino del 2005. Verdetto che arriva 15 anni dopo i fatti, 13 dopo la formazione del Tribunale speciale per il Libano dell’Aja, 11 dopo l’avvio dei lavori, 9 dopo la formulazione delle accuse, 6 dopo l’inizio delle udienze e 2 dopo la chiusura dei lavori. Una cronologia che, da sola, dimostra quanto sia difficile trovare una strada nei meandri libanesi. Gli imputati sono cinque, tutti legati al movimento politico-militare sciita Hezbollah. Tutte le piste sembrano portare verso la Siria. Hariri era un musulmano sunnita, grande imprenditore libanese con nazionalità saudita e molti appoggi negli Usa e in Francia. In un dramma libanese ecco riassunte tutte le grandi questioni del Medio Oriente.
Eppure proprio da quel delitto si può partire per analizzare l’odierno sfacelo.
Hariri fu primo ministro dal 1992 al 1998 e dal 2000 al 2004. Grande finanziatore dei movimenti politici sunniti, fu protagonista della spettacolare ricostruzione del centro di Beirut, distrutto dalla guerra civile. Era però anche il principale azionista di Solidére, la compagnia che condusse gran parte dei lavori. E nel 2002, pensa un pò, Forbes lo classificò al quarto posto tra gli uomini politici più ricchi del mondo.
Hariri, inoltre, inaugurò la politica del grande debito pubblico e del passivo di bilancio che ha finito col far saltare il banco. Il Libano, infatti, detiene uno dei debiti pubblici più alti del mondo (170% del Pil, terzo dopo quelli di Grecia e Giappone) anche se, per uno dei suoi soliti miracoli, solo ai primi di marzo, e per la prima volta nella sua storia, ha dichiarato il default, annunciando di non poter restituire i prestiti né ripagare i debiti. Una tragedia annunciata in un Paese totalmente sbilanciato verso settori non produttivi, in particolare l’edilizia e i servizi finanziari e commerciali. La macchina ha continuato a girare, accumulando debiti, grazie agli investimenti dall’estero, resi convenienti dai tassi d’interesse “gonfiati” offerti dalle banche. Una corsa sempre più affannosa (nuovi debiti per coprire quelli vecchi) che si è interrotta con il crollo del prezzo del petrolio: chiuso il rubinetto del denaro fresco in arrivo da fuori, sono rimasti i debiti. Le banche hanno bloccato i conti, il Governo ha chiesto aiuto alle istituzioni internazionali, ormai unica speranza di salvare la baracca.
Il Libano oggi: una classe media più povera e divisioni anacronistiche. Hezbollah sarà la vera bomba?
La crisi ha gettato sul lastrico le famiglie e devastato una classe media per tradizione florida e dinamica. E ha generato un movimento di protesta trasversale, composto da mille anime ma unito nella contestazione all’intera classe politica, a ragione giudicata corrotta e incompetente. Il vero obiettivo, cosciente o no, è però proprio quel “sistema del calabrone” di cui parlavamo all’inizio. La dinamica settaria di spartizione delle risorse (l’aeroporto di Beirut agli sciiti, l’industria farmaceutica ai cristiani ortodossi, l’edilizia ai musulmani sunniti…) conviene ai movimenti che la rappresentano e forse ai loro sponsor internazionali, nella miriade di guerre e guerriglie per procura di cui vive e muore il Medio Oriente. Ma non alla popolazione. I libanesi non sono più quelli usciti dalla guerra civile (1975-1990), per molti di loro l’identità nazionale è ormai prevalente. Doversi di volta in volta schierare per o contro la Siria, Israele, l’Arabia Saudita, gli Usa e quant’altro è un giogo che una popolazione colta e cosmopolita, orgogliosa della propria storia e delle proprie capacità, non riesce più a reggere.
Il nodo, qui, è Hezbollah, forse l’unico movimento a carattere settario (musulmano sciita) che conserva una buona presa popolare. I suoi guerriglieri erano stati protagonisti della resistenza all’occupazione israeliana del Sud del Paese, terminata nel 2000. E con questo avevano ottenuto al movimento un grande prestigio, anche oltre i confini dello sciismo. Hezbollah, però, non ha saputo fare il salto verso una reale interpretazione delle esigenze di tutti i libanesi, restando così una potente ma limitata componente di una società più vasta e mutevole. Non a caso oggi il movimento di Hassan Nasrallah è diventato, di fatto, il difensore dello status quo, il sostenitore dei governi chiamati a regolare la crisi, sempre meno credibili e sempre più impotenti.
Questo ruolo di Hezbollah, e la rigidità del movimento sciita, è la vera bomba che può esplodere in Libano. Non quelle di fantasia di cui, lontano mille miglia dal mondo reale, parla Donald Trump, presidente dei potentissimi Stati Uniti d’America