«Don Lorenzo è stato un prete. Poi anche insegnante ed educatore, ma innanzitutto un prete». Lo ripete con convinzione Luana Facchini, 88 anni e una vita alla “scuola” di don Milani. Luana è stata sua parrocchiana a Calenzano e ha continuato a frequentarlo assiduamente anche nell’esilio di Barbiana. Furono anni importanti, quelli trascorsi dal sacerdote nel borgo fra Firenze e Prato: è qui infatti che don Lorenzo iniziò a schierarsi decisamente dalla parte dei poveri e degli operai, dando vita alla scuola popolare per i giovani. Sette anni che prelusero e prepararono il terreno all’esperienza di Barbiana, piccola e sperduta frazione montana nel Mugello, dove don Milani fu mandato perché ritenuto “scomodo” per via delle sue posizioni molto nette.
Sono passati cento anni dalla nascita e 56 anni dalla morte del priore di Barbiana, eppure Luana lo sente ancora vicino. Nella sua casa a Calenzano campeggiano la cartina della Palestina con cui don Lorenzo raccontava la vita di Gesù, e libri e saggi a lui dedicati. Tutti sottolineati, il dorso rinforzato con lo scotch e i post-it a segnalare i passaggi più intensi. Luana e il marito Mario Rosi, mancato lo scorso anno, hanno condiviso una vita di fede e impegno sulle orme del priore: «Io e Mario abbiamo collaborato alla stesura di Esperienze pastorali. Lui per dati e statistiche, dato che lavorava in Comune, io per i grafici, a china rossa e blu con il normografo». Su una delle primissime copie di Lettera a una professoressa, che Luana sfoglia con delicata familiarità, si legge la dedica Ai ragazzi della scuola Rosi, scritta da don Milani di proprio pugno: «Andammo da lui poco prima della morte, volle salutare così il nostro impegno di doposcuola con i ragazzi, che già venivano a casa nostra a studiare».
Luana, come ha conosciuto don Lorenzo?
«Ricordo che il giorno in cui arrivò a Calenzano, l’11 ottobre 1947, io ero a scuola a Prato. Lo conobbi la domenica alla Messa delle 11. Ero lì con le ragazze dell’Azione cattolica: predicava con un linguaggio semplice e allo stesso tempo profondo. Di ritorno dalla Germania, nel 1951, appesa a una colonna della chiesa la cartina della Palestina e con una canna indicava i luoghi e gli episodi di cui parlava il Vangelo».
Che cosa la colpì?
«Don Lorenzo era “diverso” dagli altri preti. Volle conoscere subito tutti i parrocchiani, andando di casa in casa: non stava in canonica ad aspettare i fedeli, andava lui a cercarli. Ogni giorno scendeva dal poggio della chiesa di San Donato e si fermava in paese a parlare con tutti. Ma non con il farmacista, eh! Con i poveri e gli orfani, fra cui mio cugino Alessandro, di cui si prese cura a lungo. Ogni giorno andava anche all’Ufficio Postale, aveva una corrispondenza fittissima con la mamma e altri. Era molto serio in tutto quello che faceva, ma era dotato anche di grande ironia. Era sapiente e sapeva tutto, era rigido ed esigeva rispetto. Voleva che i ragazzi stessero sempre attenti, c’era solo un motivo per il quale era possibile interrompere conferenze e lezioni: se non si aveva capito. Voleva che i giovani non perdessero tempo, bisognava conoscere le parole e saperle usare. E non sopportava le bugie, la coscienza veniva prima di tutto. L’ho capito solo dopo, ma è stato un profeta: sapeva leggere nel cuore delle persone, anche se poi si metteva al livello degli altri».
Quale fu l’impatto con Calenzano?
«Il paese all’epoca era spaccato in due fra comunisti e cattolici, e in parrocchia vigeva una religiosità forsese superficiale. Il suo arrivo fu una sferzata nelle nostre vite. Decise che ping pong e circolo ricreativo non erano strumenti adatti all’evangelizzazione e puntò sulla scuola e le conferenze del venerdì sera, in cui invitava personalità a dissertare su temi di attualità».
Alla scuola popolare le ragazze non potevano partecipare, è così?
«Sì, all’epoca il destino delle donne era la famiglia. Ma lui faceva di tutto per farci stare insieme, ad esempio coinvolgendoci con il teatro. Con lui abbiamo imparato ad amare la bellezza, e ad ascoltare la musica, appassionandoci ad esempio a Beethoven e Bach. A ogni modo don Lorenzo aveva in mente di aprire una scuola per le ragazze. “Anche le oche sanno sgambettare... Voglio educarle in tutti i modi per farne delle figliole intelligenti, furbe, sveglie, capaci di difendersi, di guadagnarsi il pane, di mandare avanti la famiglia”, scriveva in una lettera del 1959. Non fece in tempo ad aprirla a Calenzano ma a Barbiana cinque ragazze frequentarono la sua scuola».
Nel 1954, dopo continue tensioni con la curia diocesana, il trasferimento a Barbiana...
«Lo ricordo bene, avevo 19 anni. Ci fu una raccolta firme per chiedere di lasciarlo da noi. Il giorno della partenza celebrò Messa alle 7. Io andai, pioveva a dirotto, i suoi mobili erano accatastati per il trasporto, pianoforte compreso. Suonò la Toccata e fuga di Bach a quattro mani con uno di noi a cui lui stesso aveva insegnato a suonare».
Voi “ragazzi di Calenzano” rimaneste comunque in rapporti?
«Anche se ci sentivamo dire “Ma tu che vai a fare da quel tonacone lassù?”, noi affittavamo l’auto e andavamo su ogni domenica. Arrivati, ci mettavamo a fare scuola. Poi pregavamo insieme il Vespro e celebravamo Messa. Con don Lorenzo ci confrontavamo su tutto, la sua camera era sempre aperta».
Fra i suoi insegnamenti quale l’ha formata maggiormente?
«Potrei dire l’amore per gli ultimi, ma a colpirmi più di tutto è stata la sua fede incrollabile, che non ha abbandonato mai, nemmeno quando la sua Chiesa, che tanto amava, lo osteggiava duramente. Diceva “Dove andrei se non avessi la Chiesa per confessare i miei peccati?”. Per me questo è stato l’insegnamento più grande. L’aver dato tutto per il riscatto degli ultimi è solo una conseguenza del suo essere cristiano e sacerdote». Nella sua vita, cosa ha cambiato l’incontro con don Lorenzo? «Io e mio marito abbiamo speso la vita dietro a lui. Quando lasciò Calenzano demmo vita a un doposcuola che è attivo ancora oggi».
UNA VITA RADICALE ACCANTO AGLI OPPRESSI
Breve ma straordinaria: si potrebbe definire così la vita di don Lorenzo Milani, nato a Firenze il 27 maggio 1923 e morto, sempre nel capoluogo toscano, il 26 giugno 1967: 44 anni caratterizzati da quell’“urgenza di Dio” che lo conduce a 20 anni a lasciarsi alle spalle il mondo borghese a cui apparteneva, per entrare in seminario. Da lì in poi decide di seguire il Vangelo radicalmente, mettendosi dalla parte dei poveri e degli oppressi. Ordinato sacerdote, è inviato alla parrocchia di San Donato a Calenzano come cappellano (nella foto: con alcuni ragazzi di Calenzano, all’inizio degli anni Cinquanta). Cerca di avvicinare i giovani con il circolo ricreativo, per poi rendersi conto come la mancanza di cultura fosse un ostacolo all’evangelizzazione e al riscatto sociale.
Avvia così la scuola popolare per operai e contadini. Dai sette anni nel paese alle porte di Prato nasce Esperienze pastorali (1958), acuta analisi dell’ingiustizia sociale incontrata. Il testo, con il suo intento di intervenire sulla realtà civile della parrocchia, viene ritirato dal commercio con decreto del Sant’Uffizio. Soffrì l’essere incompreso Per attriti con la curia fiorentina nel 1954 viene mandato a Barbiana, una sperduta frazione di Vicchio del Mugello.
Qui don Lorenzo entra in contatto con una povertà e un’ignoranza ancora più marcata. Istituisce subito la scuola serale e poi quella di avviamento industriale: un’esperienza dirompente in ambito pastorale ed educativo. Nel 1965 scrive una lettera aperta ai cappellani militari, ricordata con il titolo L’obbedienza non è più una virtù, in cui B contesta l’obbedienza cieca e chiede il rispetto per chi accetta il carcere per l’ideale della nonviolenza: per questo motivo è rinviato a giudizio per apologia di reato. A fine 1960 i primi sintomi del linfogranuloma che lo portò poi alla morte. La malattia, pur provandolo, non lo ferma.
Nel 1966 con gli allievi di Barbiana inizia a scrivere Lettera a una professoressa, dura critica al sistema scolastico in vigore, pubblicata appena prima della morte. Era un uomo esigente, don Milani, ma capace di dedizione totale ai poveri. Soffrì il non sentirsi compreso dalla Chiesa che, pure, lui tanto amava. «Pregate perché io prenda esempio da don Milani», ha detto papa Francesco nel 2017 sulla sua tomba a Barbiana. Così Bergoglio ha indicato in don Milani una figura di sacerdote vicino alla gente, a cui ispirarsi. Per approfondire: Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana di Michele Gesualdi (San Paolo, 2016).