«In quarta Ginnasio, all’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle scuole cristiane, fratel Giuseppe mi diede da leggere Non sparate sui narcisi di Luigi Santucci. E da lì ho preso la mia strada». Luigi Garlando è una delle più note firme della Gazzetta dello sport e un affermato scrittore per under 14: la serie Gol!, con le mitiche Cipolline protagoniste di tante partite e avventure, ha appassionato migliaia di ragazzi, così come Per questo mi chiamo Giovanni, una biografia di Falcone pensata per gli adolescenti, che spopola da anni nelle scuole di tutt’Italia. Se, per fortuna sua e di tanti baby-lettori, Garlando s’è dato alla scrittura è grazie a un lungimirante religioso, fratel Giuseppe Barbero, che aveva fiutato il talento del giovane Luigi. Eppure, racconta Garlando, «ogni volta che portavo un mio libro a fratel Giuseppe lui sbalordiva come davanti a un miracolo: “E sì che i tuoi temi in classe facevano pena”». Diciamo che l’ex allievo s’è preso la rivincita, visto che, a distanza di anni, i nipoti dello scrittore sono diventati avidi lettori delle “Cipolline” di Garlando. Curioso, no?
58 anni, milanese, Garlando è patito di calcio da quand’era ragazzo: «La mia specialità erano i palleggi, i piedi non erano male, il guaio era quel fisico da “Abatino”, come avrebbe detto Brera. Infatti... sono diventato giornalista». Questa doppia passione ai fan di Garlando è ben nota; molto meno la sua “ossessione” per Dante. Nella taverna della casa dove abita con la moglie Laura e la figlia Emma di dieci anni, nel verde della Brianza lecchese, il giornalista-scrittore conserva una sessantina di versioni della Divina Commedia in altrettante lingue, coreano compreso. Singolari souvenir acquistati durante i numerosi viaggi compiuti in giro per il mondo, a seguire finali di Champions, Olimpiadi e quant’altro. «Mi è sempre piaciuto scrivere terzine dantesche, come se fosse una sorta di Sudoku», confida sorridendo.
La lunga amicizia con il Divin Poeta ha generato un nuovo libro, da poco in libreria per Rizzoli: Va’ all’inferno, Dante, un testo pensato per i ragazzi (e come poteva essere altrimenti?), in vista dei 700 anni dalla morte dell’Alighieri che celebreremo nel 2021.
Da dove nasce la passione per uno scrittore così “datato”?
«Al liceo, come tanti, Dante l’ho letteralmente subìto. Poi in Cattolica ho frequentato due corsi di Filologia dantesca e lì è cambiato tutto: è stato come riscoprire un’ex compagna, a lungo nel banco accanto al tuo, della cui bellezza non ti eri accorto prima. Dall’università in poi Dante è diventato un amico discreto: uno che non frequenti abitualmente, ma sul quale sai che potrai sempre contare».
Come ha cercato di tradurre nel libro l’amore per Dante, in modo che anche i più giovani ne vengano contagiati?
«Per me scrivere è in larga misura un gioco. Ho quindi provato a calare Dante nella nostra realtà. Ad esempio: quando si presenta al protagonista del mio libro, il Nostro gli racconta che non fa il professore universitario, ma che le sue rime le ha scritte a 20 anni, l’età dei rapper, e gli spiega che, mentre nella sua epoca i letterati si esprimevano in latino, egli usava il volgare, ossia il dialetto. E via di questo passo».
La pubblicazione di Va’ all’inferno, Dante era fissata per marzo, poi è arrivato il Covid-19. Come ha vissuto il lockdown e l’astinenza forzata dal calcio giocato?
«I tre mesi di lavoro da casa mi hanno permesso di recuperare tante cose, a cominciare dagli affetti. Tra marzo e aprile ho trascorso momenti molti belli con mia figlia: in condizioni normali, a causa dei ritmi del mio lavoro ci vediamo un po’ di corsa al mattino. Durante la quarantena
ci siamo “sparati” tutta la serie di Harry Potter in otto sere consecutive: resteranno, ne son certo, un ricordo indelebile».
In quarantena le è capitato di leggere qualche autore spirituale significativo?
«Seguo sui social un amico, don Alessio Albertini, cappellano del Csi, il Centro sportivo italiano, (e fratello dell’ex calciatore Demetrio, ndr): propone riflessioni interessanti su Facebook, che regolarmente faccio mie».
Da affermato giornalista sportivo a scrittore per ragazzi. Com’è avvenuto il passaggio?
«Forse è una questione di vocazione: se non avessi intrapreso la strada del giornalismo avrei fatto l’insegnante. Mi è venuto naturale rivolgermi ai ragazzi, quando è partita l’epopea delle Cipolline, perché m’ero accorto di un vuoto da colmare: un prodotto editoriale sul calcio destinato ai bambini. Per avvicinare i piccoli alla lettura che c’è di meglio che far leggere loro cose che amano? Ecco: le Cipolline sono un po’ come lo zucchero sull’orlo del bicchiere, per far mandar giù la medicina. Si parte dal pallone e poi man mano la lettura si spinge ad altro. A me interessa appassionare alla lettura i piccoli per aiutarli a ragionare su grandi temi e valori importanti: la legalità, l’integrazione, la giustizia sociale... Ora, per evitare il rischio di fare prediche da grillo parlante punto sempre, in primis, sulla storia».
Ad esempio?
«Prendiamo Che Guevara: la sua è una vicenda intrigante, con ingredienti come la foresta, l’avventura, un’atmosfera che ricorda Sandokan. Ho scritto L’estate che conobbi il Che partendo da una scintilla: la lettera ai figli che il rivoluzionario scrive prima di partire per la Bolivia, nella
quale afferma che la prima virtù di un rivoluzionario non è sparare, bensì saper percepire il dolore degli altri. Lo trovo attualissimo: siamo in un’epoca in cui si fatica a condividere le sofferenze di chi ci sta vicino».
Ieri Falcone, oggi Dante. Nel futuro si occuperà magari di un santo?
«Perché no? Fabio Geda, uno scrittore e un amico, ha scritto Il demonio ha paura della gente allegra su don Bosco. L’avrei potuto benissimo fare io... Guardando alla mia produzione, uno potrebbe avere l’idea di un insieme disordinato di personaggi. In realtà c’è un filo rosso che lega fra loro figure così diverse come il Che, Falcone, il Papa. È la coerenza, la passione con cui queste persone vivono il proprio ideale: può essere la giustizia, oppure, come per il Papa e per i cristiani, Dio. Quando vado nelle scuole a parlare di Falcone, spiego che era una persona costretta a sacrifici notevoli, dal fare il bagno di nascosto alle 5 di mattina nel mare di Mondello alla rinuncia consapevole ad avere figli. Eppure, chiedo ai miei interlocutori, nelle sue foto lo vediamo quasi sempre che sorride. Perché? Evidentemente perché ha trovato il senso di una vita così complicata, la lotta per la legalità che gli fa accettare anche una vita da topo. Cerco di trasmettere ai ragazzi il sospetto che la felicità autentica consista nel cercare quel senso profondo per la vita, non l’avere, il fare, l’apparire. Per qualcuno può essere la sete di conoscenza, per noi cristiani è la fede: una passione profonda, che sta sotto tutte le cose che fai nella giornata. Vivere con passione è il primo “comandamento”, solo così si vince quella noia in cui tanti ragazzi rischiano di cadere».