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martedì 15 ottobre 2024
 
 

Magri (Ispi): «Si rischia un altro Iraq»

27/08/2013  Il direttore dell'Istituto per gli Studi di Politica internazionale è scettico sulla possibilità di un intervento militare contro il regime di Assad: «L’escalation verbale di questi giorni, con i toni duri da parte dell’America, fa parte di una strategia per arrivare ad un negoziato»

«Non credo che si andrà ad un attacco militare in Siria. Personalmente sono ottimista. L’escalation verbale di questi giorni, con i toni duri da parte dell’America, fa parte di una strategia per arrivare ad un negoziato».

Paolo Magri, direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e docente di Organizzazioni Internazionali all’Università di Pavia crede che ci siano ancora i margini per avviare un negoziato politico ed evitare l’intervento militare contro il sanguinario regime di Assad.

Perché, professore, è ottimista?
«Credo che il cambio di direzione brusco e violento dell’America di questi giorni faccia ancora parte di una strategia per arrivare a un negoziato politico e non allo scontro militare. Certo, Obama adesso fa la voce grossa ma non dimentichiamo le prese di posizione del ministero della Difesa americano nei mesi scorsi fortemente contrari a un intervento militare. Non possiamo, inoltre, dimenticare la ferma volontà antibellica di Obama dimostrata fino ad ora e la sua fede nella soluzione multilaterale. L’idea di un intervento al di fuori di una cornice multilaterale è un’opzione possibile ma da evitare. Infine, a imporre cautela agli americani ci sono i timori per il dopo Assad. Caduto questo regime, non c’è nessuna certezza su chi prenderà il potere, se prevarrà Al Qaeda o meno. Questi tre fattori mi fanno pensare che non ci sia una vera volontà di andare all’intervento militare con, particolare importantissimo, la Russia che ha detto di essere contraria. E Putin, non dimentichiamolo, nel porto siriano di Taurus ha un’importante base navale».

Con l’intervento armato si rischia un’altra Libia?
«Sì. È vero che contro Gheddafi si è intervenuti all’interno di una cornice multilaterale ma lo si è fatto in maniera molto frettolosa e avventata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una situazione di incertezza e molto complicata che stiamo vivendo adesso.
Non solo, ma c’è il pericolo concreto di ripetere anche gli errori compiuti in Iraq dove gli americani sono intervenuti da soli, con prove false fornite da Colin Powell e dove il caos dura tutt’oggi».

L’Europa va in ordine sparso. Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha detto che l’Italia non prenderà parte a soluzioni militari «al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu». Una posizione giusta?
«Rientra perfettamente nella tradizione della nostra politica estera. Solo una volta, nel 1999 in Kosovo, abbiamo partecipato ad un intervento militare senza il placet dell’Onu».

Non si potrebbe ripetere la stessa cosa adesso con la Siria?
«Non credo. L’analogia tra le due vicende sta nell’efferatezza dei crimini compiuti dai due regimi. Assad, come Milosevic all’epoca, ha sulla coscienza 100 mila morti, due milioni di rifugiati oltre a svariate migliaia di vittime delle armi chimiche. Dal punto di vista geopolitico, però, c’è una differenza sostanziale: negli anni Novanta, la Russia era in una posizione estremamente debole, aveva accettato il primo intervento in Iraq, veniva dal crollo del regime sovietico e aveva bisogno estremo degli aiuti occidentali. La Russia di Putin di oggi invece non è quella di allora. Gli effetti collaterali di un intervento militare con la contrarietà russa potrebbero essere molto pesanti e ricchi di incognite. Una cosa è cancellare l’incontro con Putin al G20 da parte di Obama, un’altra, per l’America, è intervenire in Siria con l’opposizione di Russia e Cina che oggi pesa di più rispetto ai Balcani».

Un intervento militare potrebbe mettere in pericolo anche i cristiani che vivono in Siria?
«I cristiani siriani sono da sempre vicini al regime di Assad e ne sono sempre stati tutelati. Una delle preoccupazioni del post Assad – perché prima o poi ci sarà un post Assad – potrebbe scatenare le violenze contro di loro. Tutte cose, va detto, che conosciamo da almeno due anni e finora si è sempre deciso di evitare l’intervento militare per una questione di cautela e ragionevolezza. Ora la diplomazia internazionale sembra voler accelerare ma i problemi di fondo che in passato imponevano la cautela – vergognosa dal punto di vista morale ma necessaria da quello geopolitico – ci sono tutti ancora oggi e ignorarli potrebbe causare più danni di quanti si pensa di poterne risolvere».  

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