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venerdì 18 aprile 2025
 
Mogol
 

Mogol, quel gran genio del mio amico Lucio

05/03/2015  Nel giorno dell'anniversario della nascita di Battisti, ripubblichiamo l'intervista all'autore dei testi più famosi del grande musicista scomparso nel 1998 che presenta il disco "New Era" in cui alcuni grandi successi della coppia vengono rivisitati in chiave rock e ricorda il loro sodalizio: "Non abbiamo mai litigato. E vorrei tanto poterlo riabbracciare".

Mogol e Lucio Battisti negli studi Rca di Londra
Mogol e Lucio Battisti negli studi Rca di Londra

Mogol ha gli occhi di un bambino mentre osserva le foto in bianco e nero che lo ritraggono a Londra insieme con Lucio Battisti. «Guardi qui, questo è l’editore dei Beatles. È lui che ci ha dato il sigaro. Questo invece è Pete Townshend, il leader degli Who. Dopo aver ascoltato Emozioni, ha chiamato tutte le persone presenti in ufficio dicendo “It’s a masterpiece”, è un capolavoro». A sentirlo parlare, non sembra siano passati più di quarant’anni da allora, quando il duo sfornava canzoni e album che finivano sempre al primo posto in classifica con una prolificità prodigiosa, tanto che persino i lati B di molti 45 giri sono diventati dei classici. Due esempi su tutti: Anche per te, retro di La canzone del sole ed Emozioni, lato B di Anna.

Ci troviamo al Cet, la scuola per cantanti, autori e musicisti fondata dall’autore dei testi della premiata ditta Mogol-Battisti. Un luogo magnifico immerso tra le colline umbre, dove è stato registrato New Era, un disco che raccoglie alcuni grandi successi della coppia, da Io vivrò (senza te) a Con il nastro rosa, suonati e cantati da collaboratori della scuola e da musicisti di fama, in versione rock.
Esistono già innumerevoli versioni delle vostre canzoni. Perché aggiungere anche questo disco?
«Perché ho pensato che se Battisti fosse stato vivo lo avrebbe fatto lui. Lucio aveva un’anima rock che si esprimeva nella sua passione sfrenata per gruppi come i Led Zeppelin, i Rolling Stones, i Genesis. Una passione che riversava anche in molte sue canzoni, come Il tempo di morire. I ragazzi della scuola hanno scelto quelle finite nel disco e le hanno interpretate con grande amore e rispetto. Il risultato, secondo me, è che ascoltandole sparisce il confronto con l’originale, sembrano canzoni nuove». 

Mogol e Battisti durante il viaggio a cavallo da Milano a Roma nel 1970
Mogol e Battisti durante il viaggio a cavallo da Milano a Roma nel 1970

Oltre alla passione per il rock, Battisti era anche un eccellente chitarrista, vero?
«Sì, era eccezionale. Qualche anno fa è stata pubblicata in un’antologia la sua versione di Vendo casa, un pezzo che abbiamo dato ai Dik Dik. Era solo un provino, registrato in uno sgabuzzino, ma sembra che la sua chitarra “parli” all’ascoltatore. Lucio era un “testone”, un perfezionista maniacale: studiava 8-9 ore al giorno. Come tutti i veri geni, sapeva che il talento non porta da nessuna parte se non è accompagnato dalla volontà di migliorarsi sempre».

Non vi dispiaceva un po’ quando davate ad altri una vostra canzone?

«No, specie se, come nel caso di Mina con Insieme e Io e te da soli, venivano poi fuori delle versioni splendide. Anche se lei aveva dei gusti un po’ particolari. Le abbiamo proposto pure Il mio canto libero e Ancora tu, ma ci rispose che non la convincevano. Lucio, comunque, è nato solo come autore. Ho dovuto faticare parecchio per convincerlo a cantare. Gli ripetevo sempre: “I tuoi provini sono sempre più belli delle versioni degli altri”. Quando finalmente accettò, dovetti ingaggiare un’altra lotta con i discografici e con la Rai: sostenevano che avesse una brutta voce…».

Nel disco è contenuto anche il primo successo della coppia Mogol-Battisti, 29 settembre. Ricorda quando gliela fece sentire la prima volta?

«Sì, perché restai sbalordito. Come sempre me la cantò in inglese maccheronico, accompagnandosi con la chitarra. Era solo la terza canzone che scrivevamo dopo Per una lira e Dolce di giorno e il progresso era così incredibile che mi stimolò a scrivere un testo all’altezza. Così scrissi una specie di film ambientato in due giornate. Lui aveva una fiducia totale in me e quando non capiva qualcosa di un mio testo me lo chiedeva. Poi se ne andava e il giorno dopo sapeva la canzone a memoria».

In Sì, viaggiare chi è «quel gran genio del mio amico»?

«Era un meccanico che avevo chiamato per riparare la mia barca dove mi trovavo insieme con Lucio. A proposito, lui, a differenza di me, non era affatto uno sportivo. Eppure una volta mi invitò al mare, indossò una muta e salì su un windsurf. In un baleno, lo vidi diventare un puntino tra onde enormi. Lui era così: quando decideva di imparare qualcosa, diventava un esperto. Era una mente analitica, non a caso aveva una grande passione per la matematica». 

È vero che negli ultimi anni della vostra collaborazione i rapporti tra di voi si erano talmente raffreddati che lui si limitava a spedirle i nastri con le musiche?
«No, no, è falso. Fino all’ultimo album abbiamo lavorato in piena sintonia. E anche dopo ci siamo frequentati: lui veniva a casa mia a mangiare. Una volta sua moglie ci chiese perché avevamo litigato. Noi ci siamo guardati e abbiamo risposto: “Ma noi non abbiamo mai litigato”».

Quindi il filo della vostra amicizia non si è mai spezzato?

«Mai. Nei suoi ultimi giorni, quando era in ospedale, gli scrissi una lettera, affidandola a un’infermiera. Diceva: “Caro Lucio, spero che i giornali esagerino come sempre, però se hai bisogno io sono qui”. Non seppi se l’aveva ricevuta oppure no fino a dieci anni dopo, quando scoprii che un medico gliel’aveva consegnata. Vide Lucio, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, leggerla e poi mettersi a piangere».

Crede che un giorno da qualche parte vi rincontrerete?

«Lo spero. Gli direi solo: “Ciao, Lucio”. E poi lo abbraccerei forte».

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