«Mentre su tutta la terra regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo con la sua piissima venuta, concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce in Betlemme di Giuda dalla Vergine Maria, fatto uomo». È l’antico canto della Kalenda a dare l’annuncio al mondo della nascita di Gesù. Accanto all’Altare della Cattedra della Basilica Vaticana, com’è consuetudine per le celebrazioni in questo tempo di pandemia, viene svelata l’immagine di Gesù Bambino che papa Francesco bacia e incensa prima dell’inizio della celebrazione della Notte di Natale quest’anno anticipata di due ore per consentire di tornare a casa entro le 22 quando comincia il coprifuoco.
Centoventi le emittenti collegate da altrettanti Paesi del mondo, oltre alla diretta streaming online a cura di Vatican Media. Poco più di un centinaio i fedeli presenti in Basilica, tutti distanziati e con la mascherina. Come pure i cardinali e i vescovi che concelebrano la Messa con il Papa ai lati dell’altare. Al Gloria le campane di San Pietro suonano a distesa.
Francesco nell’omelia parte dall’annuncio del profeta Isaia contenuto nella Prima lettura: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”: «Si sente spesso dire», afferma, «che la gioia più grande della vita è la nascita di un bambino. È qualcosa di straordinario, che cambia tutto, mette in moto energie impensate e fa superare fatiche, disagi e veglie insonni, perché porta una felicità indescrivibile, di fronte alla quale niente più pesa. Così è il Natale: la nascita di Gesù è la novità che ci permette ogni anno di rinascere dentro, di trovare in Lui la forza per affrontare ogni prova. Sì, perché la sua nascita è per noi: per me, per te, per tutti, per ciascuno. Per è la parola che ritorna in questa Notte santa: “Un bambino è nato per noi”, ha profetato Isaia; “Oggi è nato per noi il Salvatore”, abbiamo ripetuto al Salmo; Gesù “ha dato se stesso per noi”, ha proclamato San Paolo; e l’angelo nel Vangelo ha annunciato: “Oggi è nato per voi un Salvatore”». «Ma che cosa vuole dirci questo per noi?», chiede il Pontefice? «Che il Figlio di Dio, il benedetto per natura, viene a farci figli benedetti per grazia. Sì, Dio viene al mondo come figlio per renderci figli di Dio. Che dono stupendo! Oggi Dio ci meraviglia e dice a ciascuno di noi: “Tu sei una meraviglia”. Sorella, fratello, non perderti d’animo. Hai la tentazione di sentirti sbagliato? Dio ti dice: “No, sei mio figlio!” Hai la sensazione di non farcela, il timore di essere inadeguato, la paura di non uscire dal tunnel della prova? Dio ti dice: “Coraggio, sono con te”. Non te lo dice a parole, ma facendosi figlio come te e per te, per ricordarti il punto di partenza di ogni tua rinascita: riconoscerti figlio di Dio, figlia di Dio. È questo il cuore indistruttibile della nostra speranza, il nucleo incandescente che sorregge l’esistenza: al di sotto delle nostre qualità e dei nostri difetti, più forte delle ferite e dei fallimenti del passato, delle paure e dell’inquietudine per il futuro, c’è questa verità: siamo figli amati. E l’amore di Dio per noi non dipende e non dipenderà mai da noi: è amore gratuito, pura grazia. Questa notte», aggiunge a braccio, «non trova spiegazione se non con la grazia. Tutto è grazia, il dono è gratuito, senza merito di ognuno di noi. Stanotte, ci ha detto san Paolo, “è apparsa infatti la grazia di Dio”. Niente è più prezioso».
Papa Francesco sottolinea che nel Natale il «Padre non ci ha dato qualcosa, ma il suo stesso Figlio unigenito, che è tutta la sua gioia. Eppure, se guardiamo all’ingratitudine dell’uomo verso Dio e all’ingiustizia verso tanti nostri fratelli, viene un dubbio: il Signore ha fatto bene a donarci così tanto, fa bene a nutrire ancora fiducia in noi? Non ci sopravvaluta? Sì, ci sopravvaluta, e lo fa perché ci ama da morire. Non riesce a non amarci. È fatto così, è tanto diverso da noi. Ci vuole bene sempre, più bene di quanto noi riusciamo ad averne per noi stessi. È il suo segreto per entrare nel nostro cuore. Dio sa che l’unico modo per salvarci, per risanarci dentro, è amarci. Sa che noi miglioriamo solo accogliendo il suo amore instancabile, che non cambia, ma ci cambia. Solo l’amore di Gesù trasforma la vita, guarisce le ferite più profonde, libera dai circoli viziosi dell’insoddisfazione, della rabbia e della lamentela».
Il Papa si sofferma sull’estrema povertà e precarietà in cui nasce Gesù: «Perché», domanda, «è venuto alla luce nella notte, senza un alloggio degno, nella povertà e nel rifiuto, quando meritava di nascere come il più grande re nel più bello dei palazzi? Perché? Per farci capire fino a dove ama la nostra condizione umana: fino a toccare con il suo amore concreto la nostra peggiore miseria. Il Figlio di Dio è nato scartato per dirci che ogni scartato è figlio di Dio. È venuto al mondo come viene al mondo un bimbo, debole e fragile, perché noi possiamo accogliere con tenerezza le nostre fragilità. E scoprire una cosa importante: come a Betlemme, così anche con noi Dio ama fare grandi cose attraverso le nostre povertà. Ha messo tutta la nostra salvezza nella mangiatoia di una stalla e non teme le nostre povertà: lasciamo che la sua misericordia trasformi le nostre miserie».
Ma c’è ancora, aggiunge il Papa, «un per, che l’angelo dice ai pastori: “Questo per voi il segno: un bambino adagiato in una mangiatoia”. Questo segno, il Bambino nella mangiatoia, è anche per noi, per orientarci nella vita. A Betlemme, che significa “Casa del pane”, Dio sta in una mangiatoia, come a ricordarci che per vivere abbiamo bisogno di Lui come del pane da mangiare. Abbiamo bisogno di lasciarci attraversare dal suo amore gratuito, instancabile, concreto. Quante volte invece, affamati di divertimento, successo e mondanità, alimentiamo la vita con cibi che non sfamano e lasciano il vuoto dentro. Il Signore, per bocca del profeta Isaia, si lamentava che, mentre il bue e l’asino conoscono la loro mangiatoia, noi, suo popolo, non conosciamo Lui, fonte della nostra vita. È vero: insaziabili di avere, ci buttiamo in tante mangiatoie di vanità, scordando la mangiatoia di Betlemme. Quella mangiatoia, povera di tutto e ricca di amore, insegna che il nutrimento della vita è lasciarci amare da Dio e amare gli altri. Gesù ci dà l’esempio: Lui, il Verbo di Dio, è infante; non parla, ma offre la vita. Noi invece parliamo molto, ma siamo spesso analfabeti di bontà».
Il Papa, come all’inizio dell’omelia, conclude tracciando un parallelo tra la nascita di Gesù e l’esperienza di avere un figlio: «Chi ha un bimbo piccolo», sottolinea, «sa quanto amore e quanta pazienza ci vogliono. Occorre nutrirlo, accudirlo, pulirlo, prendersi cura della sua fragilità e dei suoi bisogni, spesso difficili da comprendere. Un figlio fa sentire amati, ma insegna anche ad amare. Dio è nato bambino per spingerci ad avere cura degli altri. Il suo tenero pianto ci fa capire quanto sono inutili tanti nostri capricci. E ne abbiamo tanti! Il suo amore disarmato e disarmante ci ricorda che il tempo che abbiamo non serve a piangerci addosso, ma a consolare le lacrime di chi soffre. Dio prende dimora vicino a noi, povero e bisognoso, per dirci che servendo i poveri ameremo Lui. Da stanotte», prosegue citando un verso della poetessa inglese Emily Dickinson, «“la residenza di Dio è accanto alla mia. L’arredo è l’amore”».
Il Papa conclude la sua omelia rivolgendosi direttamente al Cristo: «Sei Tu, Gesù, il Figlio che mi rende figlio. Tu mi ami come sono, non come mi sogno di essere. Abbracciando Te, Bambino della mangiatoia, riabbraccio la mia vita. Accogliendo Te, Pane di vita, anch’io voglio donare la mia vita. Tu che mi salvi, insegnami a servire. Tu che non mi lasci solo, aiutami a consolare i tuoi fratelli, perché tu sai da stanotte sono tutti miei fratelli».
Il messaggio Urbi et Orbi (“Alla Città e al mondo”) del giorno di Natale, che quest’anno si terrà nell’Aula della Benedizione, costituisce tradizionalmente l'occasione per puntare i riflettori sulle aree più martoriate del pianeta. Il Papa, nella vigilia di Natale, ha voluto mandare il suo messaggio a due Paesi particolarmente in sofferenza: il Libano e il Sud Sudan. Ha parlato del «dolore» con il quale segue gli eventi del Paese dei cedri ed ha assicurato che intende visitare il Libano «appena possibile». Quindi ha lanciato un nuovo appello alla comunità internazionale: «Aiutiamo il Libano a rimanere fuori dai conflitti e dalle tensioni regionali. Aiutiamolo a uscire dalla grave crisi e a riprendersi».
Poi si è rivolto ai politici del Sud Sudan, in una lettera scritta insieme all'Arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e al Moderatore della Chiesa di Scozia, il reverendo Martin Fair, chiedendo loro di fare progressi nel processo di pace, avviato nel 2019 con l'incontro in Vaticano. Qualche passo è stato fatto «ma sappiate che non è sufficiente per il vostro popolo», ammoniscono i leader religiosi che rinnovano l'impegno a visitare il Paese africano quando la situazione lo permetterà.