C’è una foto che accompagna Rita Pinci da quasi 30 anni nelle diverse redazioni dove ha lavorato. Dal Messaggero alla Stampa, da Huffpost Italia a Panorama a Tv2000. È il ritratto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «L’avevo comprata per l’archivio del Messaggero, dopo l’attentato a Falcone. L’abbiamo pubblicata quando hanno assassinato Borsellino. Il fotografo, Tony Gentile, me l’ha mandata ingrandita. L’ho fatta incorniciare ed è l’unica cosa che mi porto dietro. Alla fine tornerà a casa». Nel quotidiano romano 30 anni fa Pinci era capo delle cronache italiane. Ricorda le pagine lavorate tra le lacrime, mentre il Paese si fermava davanti alla tv e le redazioni smontavano il giornale del giorno dopo e riscrivevano la cronaca che sarebbe diventata storia. È all’esperienza e alla professionalità di questa giornalista che il direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Monda, tre anni fa, si è affidato per il coordinamento dell’inserto mensile Donne Chiesa Mondo dopo l’uscita abbastanza burrascosa della precedente coordinatrice, la storica Lucetta Scaraffia.
Passione e competenze
«Non sono una teorica, né una teologa. Ho sempre fatto appello alla mia professionalità. Cerco di fare un giornale che possa interessare più persone possibili». La linea politico editoriale? «È dettata dal nome della testata, Donne Chiesa Mondo. Non raccontiamo l’attualità stretta ma lo spirito del tempo delle donne nella Chiesa, per farne una piazza di confronto, anche con quelle che vengono considerate magari scomode ma innestano processi di cambiamento». Un comitato di redazione variegato – accademiche, giornaliste, scrittrici, teologhe – sceglie i temi. «Non ho trovato nessun tipo di censura di pressione, il giornale ha una sua autonomia, l’unico limite è la correttezza e la precisione nel dare le notizie». Il numero di febbraio, dedicato a Le cattoliche, è una carrellata di donne che nella Chiesa stanno costruendo qualcosa di nuovo, con autorevolezza. Qualcuna è “scomoda”, come Elisabeth Schüssler Fiorenza, pioniera della teologia femminista, o la monaca benedettina Teresa Forcades. «In questo momento all’interno della Chiesa c’è un dibattito enorme sulle donne. Quelle di cui parliamo stanno dentro la comunità cattolica, ci credono. Noi ne diamo conto».
Gli esordi nel giornalismo
Classe 1956, Rita è arrivata all’Osservatore con una carriera consolidata. «Ho avuto una bella vita professionale, ma ho studiato tanto per essere all’altezza. Lo dico sempre ai giovani: è importante avere qualcuno che ti insegni, ma bisogna prepararsi». In un mondo prevalentemente al maschile, quello del giornalismo anni ’80, arriva senza avere la strada tracciata. Parte dalla provincia, Cave (Roma), mamma casalinga e papà piccolo possidente agricolo. Ama la matematica, si vede biologa fino al quarto anno dello Scientifico. «Poi arrivò un professore di italiano che mi fece appassionare alla letteratura, cominciai a scrivere bene.
Fu lui a suggerirmi di fare la giornalista». Il contatto con il Messaggero è un lontano parente che fa il tipografo. Si trasferisce nella capitale, all’inizio come ragazza alla pari in una famiglia, poi prende casa con cinque amiche. Si mantiene facendo la babysitter, la cameriera nei bar, e nel frattempo collabora con il giornale romano. «Ho imparato a fare anche la cronaca di una partita di calcio, quando da praticante mi hanno fatto fare due anni nella redazione di Frosinone».
Venticinque anni di quotidiano, tra giudiziaria, nera e bianca, poi i magazine, la tv, l’esperienza al giornale online. Dal 2016 la collaborazione con Tv2000, dal 2019 il coordinamento dell’inserto dell’Osservatore. «Mi ha aperto un nuovo mondo. La cosa più bella è che a 65 anni ho ripreso a studiare. Per conoscere una realtà che, al di là dell’appartenenza come credente, a me era sconosciuta». Da quando è all’Osservatore studia e legge di Chiesa e Vaticano. Una secchiona lo è sempre stata, per piacere o per necessità. «Sono cattolica di formazione familiare.
Non ho mai avuto un’appartenenza ecclesiale in senso stretto. La persona di Gesù è il centro della mia fede. L’esperienza dell’Incarnazione la sento come una chiave di lettura per la vita: mettere in pratica, incarnare». Quanto ai preti, Rita li ha sempre frequentati, erano parenti: don Nazzareno, il parroco del paese; don Giacinto, il professore di lettere, uomo di grande cultura; e infine lo zio Antonino, diplomatico, per anni in servizio in America latina.
In continua formazione
La sua vera formazione è comunque avvenuta nei collettivi di donne degli anni ’70. «La mia unica appartenenza a un movimento è quella femminista. Ho aderito per convinzione, per cambiare il mondo. Per me, diciottenne arrivata a Roma dalla provincia per studiare Sociologia, il femminismo era pratica e non teoria. Il primo collettivo a cui ho aderito era quello per il salario al lavoro domestico». In quella lotta Rita ha ritrovato un insegnamento di mamma Tullia: «Ha fatto 5 figli, 4 femmine e un maschio, nell’arco di 21 anni. Era di una famiglia modesta, faceva la casalinga.
E se doveva comprare un paio di calze doveva chiedere soldi a mio padre. Ricordo che a tutt’e quattro sorelle ha sempre detto “dovete lavorare e guadagnare, anche poco, solo 100 mila lire al mese, ma non dovete chiederle”. Questo è il femminismo», dice Rita. «Al netto di tutti gli ismi, trovo sia una parola bellissima, ha dato dignità alle donne». Ma come vive una femminista all’Osservatore Romano? «Ci sto bene. Sono sempre stata un cane sciolto o se vuoi una persona normale, sono cattolica apostolica romana, non ho mai messo in discussione la mia fede, anche quando crescendo certi valori ti stanno un po’ stretti».
Eppure proprio Francesco ha detto che “il femminismo è il machismo con la gonna”. «È una frase che può non piacere. Ma se guardo ai fatti, vedo che sta nominando tante donne in ruoli importanti. Quando il Papa dice alle suore “Lottate!”, non sono parole dette al vento. Perché la suorina che è all’altro capo del mondo si sente sostenuta. Con questo papato si è innestato nella Chiesa un processo di cambiamento da cui non si torna indietro». Certo, aggiunge Pinci, ci sono cose che «sono rimaste ferme, come il diaconato, ma almeno se ne è cominciato a parlare». Quale sarebbe per lei una grande conquista? «Che non fosse più salutata come una novità la nomina di una donna. Vorrei che fosse normale. Che le scelte fossero fatte per competenze. Laiche e religiose. Nella Chiesa e anche nella società».