Qualche volta mi chiedo se il mio modo di parlare con mia figlia di 16 anni sia efficace. Mi sembra di dire cose giuste, ma mi chiedo se le ascolta davvero e se servono a qualcosa. Per mia moglie parlo troppo. Ma se parlo di meno, mi sembra di non spiegarmi a sufficienza. Secondo i miei figli, oltre che essere lungo, sono anche offensivo verso di loro. Forse perché certe volte sono teso e troppo diretto. Ha qualche suggerimento da darmi?
GIANNI
Un solo suggerimento, caro Gianni: poche parole e ben pensate. Non sempre le nostre parole sono soppesate: nascono dalle urgenze e spesso esprimono solo le nostre emozioni più negative, e fanno più male che bene. Così, a un figlio che non ha studiato, facciamo filippiche sull’importanza della scuola, sul suo scarso impegno, rinfacciandogli il tempo perso. Cose che spesso entrano da un orecchio ed escono dall’altro, o suscitano irritazione e discussioni anche accese. Oppure, facciamo confronti con gli altri ragazzi: i compagni di scuola, i figli dei nostri amici. Peggio ancora, li paragoniamo ai fratelli. Magari, adottiamo atteggiamenti sarcastici.
Un romanziere acuto come Eskol Nevo, nel suo romanzo Tre piani, fa dire questo a un protagonista a proposito degli atteggiamenti della moglie verso la loro prima figlia: «Ci mette cattiveria. Un pungiglione ben camuffato dal miele... è capace di dirle: guarda quante amiche vanno da tua sorella. Solo tu te ne stai sempre sepolta nei tuoi libri. Oppure: credi di riuscire a trovare quella cosa prima di domani, cucciolotta?... anche i nomignoli che le appioppa – testa fra le nuvole, sognatrice, zittarella – sono più critici che affettuosi. Non è solo quello che dice. È anche il tono. Tagliente. Spietato».
Non sono importanti soltanto le parole che usiamo, ma soprattutto l’intenzione sottostante, che si esprime nel linguaggio non verbale: il tono della voce, la mimica del volto, i gesti. Dietro a questi comportamenti esprimiamo il nostro giudizio, l’idea che abbiamo dei nostri figli e del nostro rapporto con loro. Comunichiamo la percezione che essi sono incapaci, immaturi, superficiali, irresponsabili. Diamo giudizi, anche pesanti, magari senza usare parole forti, ma solo con gli sguardi o i toni di voce. Meglio allora evitare la comunicazione sull’onda dell’irritazione e dell’attribuzione di colpa, pensando oltretutto di avere sempre ragione. Piuttosto, è più utile manifestare la propria frustrazione o la propria preoccupazione, chiedendo consiglio al figlio stesso: “La situazione è questa: la condividi? Che cosa faresti al mio posto? Che cosa potrebbe accadere se le cose andassero male? E io come mi dovrei comportare, secondo te?”. Così ci liberiamo dal tono predicatorio che serve a poco, e magari suscitiamo nei nostri ragazzi atteggiamenti più responsabili, nati dalla riflessione che abbiamo condiviso e non dall’obbedienza alle nostre indicazioni