Cari amici lettori,
certamente nelle nostre chiacchierate quotidiane in famiglia e tra amici hanno trovato spazio le due vicende efferate di Paderno Dugnano, dove un giovane 17enne ha sterminato l’intera famiglia nel sonno, e di Terno d’Isola, dove un trentenne, Moussa Sangare, ha accoltellato a morte una donna, Sharon Verzeni, senza motivo.
Di fronte a tanta violenza che erompe senza freni, in modo selvaggio, ci sentiamo sconvolti e attoniti. Abbiamo bisogno di capire, di trovare delle “ragioni”: abbiamo sentito le riflessioni di psicologi, criminologi e anche del cappellano del carcere minorile di Milano, don Claudio Burgio. Tassello dopo tassello, cerchiamo di darci una spiegazione per qualcosa che ci supera. Più di uno psicologo si è sentito chiedere da famiglie scioccate: dobbiamo preoccuparci?
Forse la prima cosa che dobbiamo dirci è che – nonostante tutto – la famiglia è “viva” e rimane per la stragrande maggioranza l’ancoraggio naturale e solido per la vita. Pensiamo a cosa sarebbe stato il lockdown del 2020 senza le famiglie. Anche la sfida educativa, oggi sempre più ardua, trova tuttavia genitori che – nonostante tutto – provano a barcamenarsi e inventarsi ogni giorno, senza troppe certezze alle spalle, in una sorta di terra di nessuno. Tutto questo è un po’ una buona notizia, che non dobbiamo perdere di vista quando leggiamo di episodi così barbari.
Ma non possiamo ignorare che il male esiste: in noi e intorno a noi. E che a volte, per motivi in parte insondabili, erompe in modo violento, ricordandoci la sua esistenza oscura. Così come dobbiamo riconoscere che esiste oggi un disagio negli adolescenti e nei giovani che mi sembra qualitativamente diverso da quello del passato. Colpisce, nelle parole del ragazzo di Paderno, il suo senso di sentirsi «un corpo estraneo» in una famiglia in cui sembrava circolare affetto, cura, amore.
Ho pensato istintivamente ai tanti ragazzi che vedo in piccoli gruppi, dove a un certo momento ognuno è concentrato sul proprio smartphone. Soli tra coetanei, figuriamoci quando sono con gli adulti. È un disagio per cui noi adulti non abbiamo antenne e che i ragazzi esternano pochissimo. Un sentimento che fa grande fatica a trovare la via della parola. Per poi erompere in modi violenti, inattesi e sconvolgenti.
Come adulti non abbiamo risposte e forse è un bene: dovremmo imparare a farci più domande, a essere meno “assertivi” con i nostri modelli di vita e provare a porci più umilmente in ascolto di un mondo, quello dei giovani, che ci è estraneo.
Credo si possano cogliere tre minuscoli spiragli di “bene” in questi crudeli fatti di cronaca. La confessione del ragazzo con il cappellano del carcere: forse uno sfogo disperato, forse però anche un barlume di presa di coscienza di un male che richiederà lungo tempo per essere rielaborato. La persona non è assimilabile al male commesso. Poi, la breve dichiarazione dei genitori di Sharon Verzeni: non espressione di rabbia o vendetta, ma un «Ci affidiamo a Dio…» e l’augurio che «l’assurda e violenta morte di Sharon non sia vana e provochi una maggiore sensibilità in tutti al tema della sicurezza».
Infine – e forse è la cosa che fa sperare di più – l’affetto incondizionato dei nonni del ragazzo di Paderno, che hanno dichiarato di voler stare vicini al nipote nonostante tutto. I legami di un amore “forte”, che, pur nel dolore, vede oltre il male.