Quando Giuseppe Ambrosoli andò dal padre Giovanni Battista per dirgli che non avrebbe lavorato nell’azienda di famiglia, quella del miele e delle caramelle, ma sarebbe diventato medico e missionario, il padre, un tipo liberale ma poco devoto, gli disse: «Fai quello che ti senti però, se diventi prete, tieniti lontano dal potere. Sporcati le mani, resta con i piedi per terra, sii persona semplice».
È esattamente la vita di padre Giuseppe Ambrosoli, penultimo di otto figli, venuto al mondo nel 1923 insieme con l’azienda del miele, resa celebre dal celebre motto “Che bontà!” che negli anni Sessanta spopolava in Tv con Carosello, che sarà proclamato beato domenica 20 novembre dal Nunzio apostolico in Uganda, monsignor Luigi Bianco, in rappresentanza di papa Francesco.
Anche se per gli ugandesi, padre Ambrosoli è santo da oltre mezzo secolo. Da quando, era il 1956, arrivò come medico a Kalongo, nel nord del Paese, ai piedi della Montagna del Vento, dove ancora oggi l’aspettativa di vita non arriva a 56 anni e malaria e malnutrizione sono tra le prime cause di morte. S’imbarca a Venezia, arriva a Mombasa, e da lì su un camion per milleduecento chilometri fino a Kalongo, nella diocesi di Gulu. Ci trova una capanna col tetto di paglia, gli dicono che è un dispensario per le donne incinte. Sotto la sua guida, lo trasforma in un vero e proprio ospedale formando medici e infermieri e dotandolo di vari reparti, dall’Ostetricia alla Chirurgia. Tre anni dopo fonda anche la Scuola per ostetriche e infermiere con la collaborazione delle missionarie comboniane.
Ambrosoli aveva le idee chiare. Dopo la laurea in Medicina nel 1949, vola in Gran Bretagna per specializzarsi in Medicina Tropicale al London Tropical Disease Institute. Il 17 dicembre 1955 viene ordinato prete a Milano dal futuro Paolo VI. Aveva scelto i Missionari Comboniani perché potevano mandarlo in terra di missione in tempi brevi. A una condizione: che potesse fare anche il medico. «Era un uomo del fare animato da una fede profonda», dice Giovanna, nipote di padre Giuseppe, ora a capo dell’omonima Fondazione che sostiene finanziariamente il Dr. Ambrosoli Memorial Hospital e la St. Mary’s Midwifery Training School, riconosciuta dal Ministero della Sanità Ugandese come una delle migliori scuole di ostetricia del Paese, entrambi scampati alla guerra civile che ha insanguinato l’Uganda per oltre vent’anni e oggi unico avamposto per la salute di mezzo milione di persone in una delle zone più povere e martoriate dell’Africa.
«Il primo ricordo che ho di lui è quando, tredicenne, andai con papà a Fiumicino per accoglierlo di ritorno da Entebbe. Doveva fare un giro per procurare fondi per l’ospedale», racconta Giovanna, «l’ultimo risale al 1986, un anno prima della sua morte. Io frequentavo l’Università, lui venne a casa nostra a Milano e mi chiese cosa stessi studiando. È come un flash: il sorriso mite dello zio che si affaccia sulla porta della camera».
Giovanna Ambrosoli, presidente della Fondazione, a Kalongo, in Uganda
Quando padre Giuseppe, sul camion che lo porta per la prima volta a Kalongo, all’autista che chiamandolo per cognome gli chiede il cambio alla guida risponde: «Lasci stare i titoli pomposi, chiamatemi Giuseppe e certo che so guidare un camion». «Bene, allora tocca a te».
«Appena arriva in Uganda si mette a disegnare i padiglioni del nuovo ospedale su carta millimetrata», dice Giovanna, «poi apre i reparti anche ai malati di lebbra perché sostiene che anche loro devono essere curati come tutti gli altri e non essere trattati da reietti. Infine, avvia la scuola per ostetriche e ridurre, in questo modo, il tasso di mortalità neonatale che in Uganda è ancora tra i più alti del mondo. Dagli inizi ad oggi, la scuola ha formato oltre milleseicento ostetriche, richieste non solo in patria ma anche in altri Paesi, dal Congo alla Tanzania».
La scuola gli è costata letteralmente la vita: «Lo zio soffriva di nefrite e per gran parte della sua esistenza ha lavorato con un solo rene», racconta, «nel 1987, durante la guerra civile, le truppe governative lo accusano di assistere e proteggere i ribelli e gli intimano di evacuare in 24 ore l’ospedale dove, di notte, si nascondevano le mamme per non farsi portare via i bambini dai guerriglieri, bisognosi di nuove leve da arruolare». Padre Giuseppe riesce a riparare a Lira, 124 chilometri a sud di Kalongo, con millecinquecento persone, tra pazienti, religiosi e civili: «I superiori gli ordinarono a quel punto di rientrare subito in Italia per farsi curare. Lui ritardò la partenza per mettere in sicurezza la scuola e trovare un rifugio per le ostetriche in un luogo protetto, ad Angal. Gli fu fatale. Quando arrivò l’elicottero per portarlo in ospedale a Gulu e farlo sottoporre alla dialisi era morto da cinque minuti».
Dopo due anni, ospedale e scuola, affidati alle cure del comboniano padre Eugenio Tocalli, vengono riaperti e sette anni dopo tornano a Kalongo, dove si trovano tuttora e dove, nel piccolo cimitero cittadino che si trova lì accanto, riposano le spoglie mortali di di Ajwaka Madid, lo "stregone bianco", come lo chiamavano laggiù, che aveva chiesto di giacere per sempre nella terra d’Uganda avvolto da un semplice lenzuolo.
Giovanna, madre di tre figli e da un anno e mezzo nonna di Leonardo, laureata alla Bocconi in Economia e Commercio, dopo essersi occupata di finanza in Montedison, nel 2010 ha lasciato un fondo di venture capital e ha deciso di seguire a tempo pieno la Fondazione, nata nel 1998 per portare avanti l’impegno di padre Ambrosoli. «Quando sono arrivata io, l’ospedale era in un momento di grande precarietà perché il sostegno internazionale andava esaurendosi, i donatori erano limitati alla rete dei familiari e degli amici della famiglia Ambrosoli e si era conclusa la direzione comboniana», racconta, «ho riorganizzato la rete dei benefattori, avviando varie iniziative per far conoscere questa realtà. Il nostro obiettivo è sostenere l’ospedale e attraverso borse di studio la formazione dei medici. Oggi in totale lavorano 250 persone che vivono tutte insieme in un compound. I medici, tutti locali, sono otto, uno per ogni reparto. Tra semplici cure ambulatoriali e ricoveri, vengono assistiti ogni anno oltre cinquantamila persone con tremila interventi chirurgici, parti cesarei compresi, e quattromila parti naturali».
Giovanna va due volte l’anno in Uganda: «La prima volta nel gennaio 2010 per il cinquantesimo anniversario dell’ospedale, quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno alla Fondazione. L’ultima a luglio scorso dopo due anni di stop imposto dalla pandemia».
Un medico nell'ospedale di Kalongo
La malaria è la prima causa di ricovero, legata anche alla povertà della popolazione, alla mancanza di sangue per le trasfusioni e alla malnutrizione: «Il Covid è stata una tragedia perché, con l’isolamento, ha fatto aumentare la mortalità dal 33 al 67% in una popolazione che ha un’età media di 15-16 anni e in un distretto dove non ci sono infrastrutture», spiega Giovanna, «le nascite dei bimbi prematuri sono aumentate del 122 per cento».
Ogni componente della famiglia Ambrosoli meriterebbe un biografia: dal bisnonno di padre Giuseppe, che nell’Ottocento era il bibliotecario all’Accademia di Brera, al padre Giovanni Battista, chimico di professione, che nel 1923 trasferisce la passione per i bachi da seta alle api e assocerà per sempre il suo cognome al loro miele.
Oggi l’unico fratello rimasto di padre Ambrosoli è Alessandro, 90 anni, il papà di Giovanna, presidente e amministratore dell’azienda che dà lavoro a sessanta persone e il prossimo anno festeggia i cento anni di vita. La sede si trova a Ronago, nel Comasco, dove Giuseppe Ambrosoli è nato e c’è la casa di famiglia con la camera dove dormiva quando tornava in Italia: «Papà ancora non ci crede che sta per diventare Santo», racconta Giovanna, «lo zio aveva nel Dna l’altruismo e il senso di abnegazione per gli altri. A 20 anni, dopo le leggi razziali del Fascismo, aiutò gli ebrei a fuggire di notte in Svizzera e per questo, quando fu scoperto, i tedeschi lo spedirono in un campo di lavoro in Germania».
Come mai la storia di padre Ambrosoli, “quello del miele”, è così poco conosciuta e anche sui media se ne parla pochissimo? «Lo zio», risponde Giovanna, «non voleva raccontare ciò che faceva. Quando gli assegnarono il premio Carlo Erba come miglior medico, non venne in Italia a ritirarlo, pensando di non meritarlo. Anche i suoi fratelli, compreso mio padre, erano restii a raccontare la sua missione, nel timore che si offendesse». Oggi diventa beato: «Riuscì a far breccia persino nel cuore del sanguinario dittatore Idi Amin Dada, che rimase impressionato da una visita a Kalongo e gli donò un’autoambulanza. Era un uomo mite ma energico. I guerriglieri quando fecero irruzione nell’ospedale gli spararono addosso e lui riuscì a schivare il colpo. Poi difese le studentesse dalla soldataglia che le rapiva: “Questo è il mio ospedale e le regole sono quelle che detto io”. Morì convinto che glielo avessero distrutto. Invece i confratelli e i medici due anni dopo lo trovarono intatto: gli indigeni l’avevano salvato».
Sul sito www.fondazioneambrosoli.it è possibile conoscere tutte le attività portate avanti in Uganda e contribuire attraverso una donazione tramite bonifico bancario all’IBAN: IT70 I034 4010 9010 0000 0613 200 (Banco Desio) o tramite versamento sul C/C postale n. 8758230 intestato a: Fondazione Dr. Ambrosoli Onlus – Via Bartolomeo Panizza,7 20144 Milano