È ormai buio quando arriva un’auto. I passeggeri sono sagome di cui è impossibile scorgere i volti. A uno a uno salutano l’autista senza parlare, limitandosi a farsi avvolgere in un lungo abbraccio. Poi se ne vanno. In quel momento, padre Vasil Kolody, parroco della chiesa greco-cattolica dell’Intercessione della Vergine Maria, nella zona meridionale della città di Dnipro, ci viene incontro, strascicando i piedi e abbozzando un sorriso. «Prego, entrate nella casa di Dio», dice, facendoci strada su per le scale di quella che potrebbe sembrare una chiesetta di campagna ma è, al contrario, un punto di riferimento importante per la terza città più grande dell’Ucraina.
La Chiesa greco-cattolica, che ha il suo cuore pulsante nella capitale Kiev e il suo radicamento principale nell’ovest del Paese, rappresenta una sorta di fusione tra il cristianesimo orientale incarnato dalle Chiese ortodosse e quello occidentale rappresentato dalla Chiesa cattolica. «Siamo figli della stessa madre ma stiamo crescendo autonomamente», spiega con una metafora padre Vasil, mentre accende le luci della chiesa e chiude a chiave il portone, obbligandoci a strizzare gli occhi nel passaggio dall’oscurità della notte, che si stende all’esterno, alla patina dorata e luccicante dell’altare e della cappella all’interno. Pur essendo in comunione con Roma, con cui condivide dogmi, dottrine e obbedienza al Papa, la Chiesa greco-cattolica sposa interamente il rito bizantino e le sue forme liturgiche.
Se il luogo è di per sé particolare, lo è ancora di più il nostro protagonista. «Ho toccato la guerra con mano, per questo parlo alla gente attingendo alla mia esperienza personale», racconta padre Vasil. La sua è la storia di un uomo che si è scontrato con l’orrore di anni di conflitto, prima come cappellano militare a fianco dei soldati ucraini nella sfiancante guerra iniziata nel 2014 contro i separatisti filorussi del Donbass e, successivamente, come psicoterapeuta a sostegno delle famiglie dei soldati rimasti uccisi in battaglia. «In ambo i casi ho avuto l’onore di confrontarmi con persone che non avevano bisogno di atteggiarsi a santi o veri credenti, ma che si rivolgevano a me per com’erano, con le loro paure e le loro sofferenze».
ANNI DI ORRORE
Padre Vasil fa una pausa e prende fiato. Ha gli occhi arrossati e le mani che gli tremano. «Questo è il significato più puro di umanità e, drammaticamente, la cosa più bella che ho imparato dalla guerra». Ed è anche la lezione che più spesso cerca di veicolare ai suoi fedeli sia tramite il canale YouTube che ha aperto nel 2017 e che oggi – complice la pandemia – conta centinaia di sostenitori, sia negli accalorati sermoni che recita dal 24 febbraio scorso, quando anche Dnipro, città a stragrande maggioranza russofona ma con un forte spirito nazionalista ucraino, si è svegliata al suono delle bombe dell’aggressore. «Non insegno con le parole ma mostrandomi umano. È quest’atteggiamento che spero la gente trasmetta agli altri», confida padre Vasil, esprimendo in un concetto all’apparenza scontato una grande verità. «Poi li invito a confessarsi e ricordo loro che il regno di Dio è vicino». Questo passo del vangelo di Marco è diventato anche il motto della piccola parrocchia greco-cattolica di cui è a capo.
UN DOLORE STRAZIANTE
Padre Vasil parla a fatica, senza nascondere il peso enorme che porta con sé. «Passare le giornate al fronte durante un conflitto non fa paura, perché sei costantemente impegnato e non ci pensi», racconta, mentre si curva in avanti e stringe forte il crocifisso che ha in mano. «Seppellire qualcuno che conosci, invece, è straziante». Se si finisce per abituarsi agli scontri a fuoco e al tonfo delle bombe, come molti ucraini stanno loro malgrado realizzando dopo due settimane di conflitto, è la morte a lasciare segni indelebili. Otto anni fa padre Vasil ha ospitato in parrocchia una brigata di paracadutisti militari. Quando il loro elicottero è stato abbattuto dalle forze aeree russe, ne ha celebrato il funerale. «Mentre i loro compagni sorvolavano i cieli sopra di noi, muovendo le ali in un gesto di commiato, ho sentito il mio cuore spezzarsi», sussurra, incapace di trattenere le lacrime. Nonostante lo sconforto che lo assale a tratti, padre Vasil crede ancora nell’importanza di superare la differenza dei punti di vista, per un obiettivo superiore. «Abbiamo messo da parte le divisioni politiche, religiose e ideologiche, per fare fronte comune contro i russi», dice mentre si asciuga gli occhi con il dorso della mano. «Durante la guerra del 2014 non sapevamo niente. Sono stati loro a insegnarci a organizzarci, a implementare migliori sistemi di comunicazione e a combattere come si deve. Oggi siamo molto più preparati». Se padre Vasil già presagisce i traumi che a breve si insinueranno tra i membri delle tante famiglie ucraine spezzate dalle bombe o dall’esodo, ed è pronto ad assisterle dando loro supporto psicologico, la sua chiesa è già attiva sia sul lato umanitario, accogliendo gli sfollati che ogni giorno arrivano in massa dall’est del Paese dilaniato, sia su quello militare. «Sosteniamo i soldati portando cibo, vestiti, giubbotti antiproiettili, ginocchiere... e praticamente qualunque cosa serva… eccetto le armi», racconta.
COME DAVIDE E GOLIA
«La Federazione Russa e l’Ucraina sono come Davide e Golia», continua il prete. «Il nostro Paese è diventato da un giorno all’altro il baluardo del mondo civilizzato e democratico secondo un sistema che, dal basso verso l’alto, vede la gente normale guidare le scelte dei politici, e non viceversa». La sinergia e la compattezza delle tante anime della società ucraina si riscontrano nei piccoli gesti eroici di ciascuno ma, ancora di più, nell’ostinazione dimostrata dall’esercito, che – fino a oggi – sta mettendo in difficoltà un nemico dato incontestabilmente per vincitore, costringendolo a indietreggiare e a riorganizzarsi. «In quanto membro della società ucraina chiedo al mondo di aiutarci, perché onestamente non so quanto resisteremo», dice infine padre Vasil, cambiando improvvisamente registro. «Ho paura che la brutalità dei nostri avversari faccia vacillare la fiducia che ha tenuto in piedi i miei concittadini fino a questo momento». Piegato dalla stanchezza, come se con quest’appello il suo corpo si fosse prosciugato anche dell’ultimo guizzo vitale, il sacerdote si congeda. Mentre ci accompagna alla porta, confessa che nel pomeriggio ha detto addio personalmente al primo soldato di questa nuova guerra, celebrandone il funerale. Sa già che non sarà l’ultimo. Perché la guerra non la si impara mai, la si vive. E padre Vasil l’ha già vissuta fin troppo.