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martedì 25 marzo 2025
 
 

Più di un appello: non lasciamoli soli

22/05/2013  Gli anniversari, anche quelli dalle tragedie peggiori come il terremoto in Emilia del 2012, servono a non dimenticare. Qui, le storie di chi non ha bisogno di anniversari

È passato un anno e molte cose sono cambiate. Non tutte necessariamente in meglio, sia chiaro, ma il terremoto che ha colpito l'Emilia nel 2012 ha rivelato agli italiani la forza e il coraggio di una terra che, cuore produttivo del nostro Paese, si è rialzato, subito, e ha ripreso a camminare sulle proprie gambe. 

27 morti, 8mila sfollati, la distruzione totale o parziale di interi centri storici e danni al tessuto economico locale per un valore stimato in circa 6 miliardi di euro non raccontano comunque fino in fondo cosa significa vivere una tragedia come il sisma. Dentro questi numeri non ci sono la paura di non farcela, l'angoscia di non avere niente a cui aggrapparsi, il senso di vuoto per aver perso tutto. 

«L’aiuto di Cesvi - racconta Gloria Trevisani, titolare dell'impresa CREA-SI -, oltre all’aspetto materiale, ha avuto un grande impatto emotivo, perché qualcuno ha creduto in noi, nella possibilità di farcela. Così non abbiamo progettato solo di ripartire, ma di crescere e di migliorarci rispetto a come eravamo prima».

Già, il Cesvi. Chi "frequenta" il mondo del volontariato e del non profit conosce l'organizzazione per i suoi progetti nel Sud del Mondo. Ma il dramma dell'Emilia è stato il motore di "un'eccezione" per un intervento in Italia con l'entusiasmo e le competenze già dimostrate altrove.

Il presidente del Cesvi, Giangi Milesi, racconta: «La nostra presenza a Modena nasce dalla generosità di un nostro prestigioso donatore privato, il Gruppo Ermenegildo Zegna, che ci ha voluti operativi in Italia per replicare un modello di intervento nelle catastrofi umanitarie già sperimentato insieme all’estero, a partire dallo Tsunami del 2004. Un modello basato sul protagonismo delle persone aiutate - basti pensare che dietro le imprese coinvolte ci sono oltre 200 fornitori locali - ma anche sulla trasparenza finanziaria, attraverso il controllo e la certificazione esterna di tutte le spese che la società PwC si è offerta di condurre pro bono».

Il primo filone di intervento ha interessato tre imprese operanti in settori strategici per il territorio e le popolazioni della bassa modenese: biomedicale, tessile e ingegneria meccanica. In pratica, a queste realtà il Cesvi ha fornito le risorse per riavviare immediatamente le attività in nuove strutture, contribuendo a garantire la continuità occupazionale e la sicurezza sul lavoro per circa 200 collaboratori

Il resto, e non è poco, lo ha fatto lo spirito della gente dell'Emilia la cui buona volontà non deve trasformarsi in un paravento né per le istituzioni né per tutti coloro che potrebbero compiere piccoli ma comunque significativi gesti concreti per sopperire a bisogni e "solitudini". Delle 25mila aziende coinvolte dal sisma, oltre la metà ha dichiarato di aver subito dei danni ma a maggio 2013 sono state depositate appena 101 richieste di rimborso pubblico. Il problema, ancora una volta, è accentuato dalla burocrazia se è vero che meno di dieci, finora, hanno potuto godere dei fondi per le imprese.

«Sono convinto che se sapremo accompagnare le esigenze degli Emiliani - sottolinea Giangi Milesi - avremo negli anni un ritorno eccezionale, un esempio nazionale per l’innovazione urbanistica, per la gestione sostenibile del territorio in ambito agricolo, per lo sviluppo delle piccole imprese artigianali e per il welfare dei servizi educativi e sociali».  

Oltre la riprese economica c'è dell'altro. Il superamento del trauma, infatti, è l'altra faccia della stessa medaglia: per questo Cesvi ha contribuito a sostenere laboratori mirati destinati a bambini e genitori affinché attraverso il gioco vengano rielaborati lutti e paure. L'organizzazione è stata affidata allo staff della cooperativa Gulliver: attività artistiche come il disegno o la lavorazione di materiali come la creta, il legno, la stoffa unitamente all'interpretazione di storie simboliche sono la strada scelta per iniziare un programma di ridefinizione delle emozioni, restituendo a ciascuna di queste, belle o brutte che siano, la dimensione che meritano all'interno della quotidianità.

 

Alice Ferrarini, 36 anni, è presidente della cooperativa “La mano sul berretto”, fortemente radicata nell’area nord della provincia di Mantova con 31 persone in servizio che si occupano di progetti a sostegno delle comunità di migranti e di tutela del verde pubblico, favorendo l’inserimento lavorativo delle categorie più svantaggiate. Il terremoto del 20 maggio danneggia gravemente un capannone in cui sono custoditi alcuni mezzi agricoli. Con la scossa del 29 maggio, la sede della cooperativa situata in località Bottegone diventa inagibile.

I dipendenti decidono di non interrompere le attività e per un anno intero lavorano all’interno di un piccolo container
portando avanti, tra l’altro, un fondamentale intervento di mediazione dei conflitti culturali tra persone italiane e straniere alloggiate nelle tendopoli della zona. Da 10 giorni “La mano sul berretto” ha finalmente trovato una piccola sede in affitto. «Dal punto di vista della crescita interna - spiega Alice - il terremoto è stato un dramma ma anche una grande opportunità. Abbiamo scoperto una straordinaria coesione tra il nostro staff e abbiamo imparato a operare nell’emergenza, accreditandoci come un interlocutore credibile sul territorio».

Giacomo, 46 anni, lavora nell’isola ecologica di Camposanto dal 2010 come collaboratore della cooperativa “La mano sul berretto”. Il 20 maggio non si rende conto della gravità del terremoto e, a differenza di tutti i suoi vicini, torna in casa mettendosi a dormire. La scossa del 29 maggio, invece, ha un epicentro molto vicino e lo terrorizza. «Mi ha sorpreso nel sonno - racconta - e mi sono trovato la via di uscita bloccata da un mobile che era stato spostato dalla violenza del sisma. Ho avuto paura soprattutto quando, nello scappare, ho visto che le scale si erano staccate dal muro e avevano crepe spaventose».

A breve la casa di Giacomo sarà demolita. Dopo aver dormito i primi giorni all’aperto sotto la tettoia dell’isola ecologica, accanto ai bidoni in cui si raccolgono neon, pile e lampadine, ha chiesto il permesso all’azienda che gestisce i rifiuti trascorrendo tutta l’estate nel minuscolo container situato all’interno della discarica. Oggi, grazie al contributo CAS che incentiva la popolazione a trovare una sistemazione autonoma, vive in un piccolo appartamento in affitto insieme al fratello. «Il terremoto mi ha insegnato a mantenere la calma anche nelle situazioni più difficili. Nonostante tutto quello che mi è successo, mi sento un uomo fortunato per il solo fatto di essere sopravvissuto. Sono sicuro che la gente dell’Emilia ce la farà, perché ha un approccio positivo alla vita». 

Pakyza, 12 anni, ha partecipato a un corso serale di italiano organizzato - grazie all’aiuto di Cesvi - dalla cooperativa “La mano sul berretto”: «Sembravano tenebre che urlavano sotto la terra». Il terremoto del 20 e 29 maggio rende inagibile la casa di Finale Emilia in cui vive da sei anni con i genitori, due sorelle e due fratelli. La famiglia viene alloggiata per i primi tre mesi nella palestra del campo sportivo.

«Poi ci hanno proposto di andare in un hotel a Palagano, un paesino di montagna, per tre giorni - racconta Pakyza. Ci siamo rimasti tre mesi, non avevamo nulla, nemmeno i vestiti. Ma tutta la comunità ci ha aiutato e non ci ha fatto mancare nulla». Nel settembre 2012 Pakyza ritorna in paese con i familiari e ricomincia regolarmente la scuola in una struttura prefabbricata.

La mamma, 41 anni e un viso scavato dalla fatica, frequenta il corso per migliorare il suo livello di italiano e integrarsi meglio nel nostro Paese. Il padre lavora grazie alla formula della “borsa lavoro” messa a disposizione dal Comune di Finale Emilia, accompagnando i bambini sullo scuolabus. Per l’estate dovrà trovare un altro impiego che gli permetta di mantenere i cinque figli.

Tanya, 46 anni, vive in Italia da 15 anni. Parla molto bene la nostra lingua, con un buffo accento che tradisce la sua lunga permanenza a Napoli, ma è desiderosa di migliorare il suo italiano scritto. Per questo frequenta con entusiasmo il corso promosso da “La mano sul berretto” a Finale Emilia. Lavora come badante di una donna di 83 anni affetta da Alzheimer.

«Dopo il terremoto - racconta - il mio lavoro è diventato molto più pesante. Prima mi occupavo solo di cucinare e di stirare, mentre ora devo badare alla nonna 24 ore al giorno, anche durante la notte. Con il sisma la condizione degli anziani è gravemente peggiorata, tanto che il disagio si manifesta anche con incubi e deliri notturni. In questi mesi ho preso l’abitudine di segnare su un quaderno quante ore riesco a dormire ogni notte».

Nonostante tutto, Tanya è felice del suo lavoro e di come è stata accolta dai parenti dell’anziana donna, che sono per lei come una famiglia. Il suo grande rimorso è quello di avere lasciato in Ucraina la figlia, che oggi ha 26 anni, con un padre che si è rivelato assente e inetto. «Voglio portare a termine il mio impegno in Italia - dice - perché ho un forte senso di responsabilità verso la mia famiglia italiana. Quando non avranno più bisogno di me, sogno di tornare in Ucraina, dove mia figlia e il mio nuovo compagno mi stanno aspettando».

Francesco collabora con la cooperativa “La mano sul berretto” insegnando italiano agli stranieri a San Felice sul Panaro, una delle località più colpite dal sisma del 29 maggio. Sa trasmettere fiducia, passione, allegria. Le comunità di migranti, che risiedevano in gran parte nei centri storici della provincia di Modena, sono state gravemente danneggiate dal sisma a causa della perdita della casa.

«Le comunità più numerose a San Felice - come spiega l’assessore ai servizi sociali Luisa Mestola, che sembra conoscere nome per nome gli stranieri che abitano nel paese e parla con entusiasmo dei risultati raggiunti negli ultimi anni in termini di convivenza e integrazione - sono marocchini, rumeni, ghanesi, senegalesi, ucraini e moldavi».

Dall’India viene invece Kaur, 33 anni, studentessa modello che è laureata in medicina omeopatica ma in Italia non riesce a trovare un impiego. In assenza di altre strutture agibili, i corsi si tengono nell’unica ala della scuola elementare che è stata risparmiata dal terremoto. Lo stesso spazio è usato per le riunioni del consiglio comunale e varie attività a favore della cittadinanza, come il cinema, i concerti e altri eventi. La messa, invece, si svolge in una tensostruttura.

Xin Chen, 24 anni, sembra un ragazzino, ma è padre di due figli di 5 anni e 18 mesi. Viene dalla provincia meridionale dello Zhejang, come la stragrande maggioranza dei suoi connazionali immigrati dalla Cina nella provincia di Modena. È un abile imprenditore nel settore della ristorazione. Lo incontriamo nel suo ristorante a due piani, il “5 stelle”, che ha aperto a Mirandola il 23 aprile 2012. È stato un duro colpo, per Chen, scoprire che la scossa del 29 maggio aveva resa inagibile il locale appena inaugurato. Ma non si è dato per vinto e in soli 71 giorni è riuscito a riaprire le porte.

Chen - come lo chiamano tutti a Mirandola - crede nel valore dell’integrazione e dello scambio interculturale. Arriva in Italia all’età di 9 anni senza sapere una parola della nostra lingua. A 18 anni, a seguito di un’iniziativa della regione Emilia Romagna, ha la possibilità di partecipare al servizio civile volontario e di conoscere gli operatori della cooperativa “La mano sul berretto”. È talmente bravo che diventa, nel tempo, il migliore mediatore linguistico della zona.

Ancora oggi, nonostante i suoi impegni con il ristorante, collabora con la cooperativa. Nel locale dà lavoro a ragazze rumene e moldave. «La comunità cinese è stata molto autonoma nel gestire le difficoltà dopo il sisma - ci spiega - il console cinese è venuto personalmente per distribuire le tende. I cinesi hanno preferito non chiedere aiuti esterni e hanno allestito le tende davanti ai loro esercizi commerciali. Sono orgoglioso del mio popolo, che ha mostrato grande dignità e determinazione».

Enrico, 54 anni, vive con la mamma Maria di 74 anni in un MAP (Modulo Abitativo Provvisorio) a Cavezzo, il suo paese di origine, epicentro della scossa del 29 maggio 2012. Per salvare il suo cane, ha rischiato la sua stessa vita, già difficile a seguito di 4 operazioni al cuore e altrettanti by-pass, risalendo tre piani di scale mentre la gente dalla strada gli urlava di fermarsi. L’uomo ha trovato la cagnolina terrorizzata sotto il letto: con fatica è riuscito a strapparla da quel rifugio e portarla al sicuro.

Nei 4 mesi successivi Enrico ha dormito con la mamma e Margot in una Fiat Punto grigia, poi altri 5 mesi in una roulotte e infine 9 mesi nella tendopoli “Abruzzo” dove - spiega - «La presenza di Margot a volte ha creato problemi di convivenza con gli altri ospiti, specialmente quelli di origine islamica che, per motivi religiosi, non si avvicinano ai cani». Da due mesi è stato trasferito nel MAP e ci racconta: «Sento di avere finalmente una casa, anche se è composta solo da una piccola cucina, un bagno e una camera e sono costretto a dormire sul divano accanto ai fornelli».

«Non riesco a superare il dramma del terremoto - racconta la signora Giovanna - ad ogni minimo rumore sussulto, ho paura di tutto, anche del buio o di fare la doccia. Non mi reco mai in centro, perché vedere il mio paese ridotto in macerie mi fa soffrire troppo». Giovanna, con il marito e il figlio, ha rimesso in sicurezza la sua villa di campagna con i risparmi di famiglia e, come molti, teme che i fondi statali per i terremotati dell’Emilia non arriveranno mai.

«Abbiamo dormito per due mesi in una tenda montata in giardino - spiega - poi, dopo i necessari accertamenti, siamo rientrati in casa, ma non ho ancora trovato il coraggio di sistemare i mobili e mettere i quadri alle pareti». 

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