Un mese fa, il Time magazine paragonava Mitt Romney a uno di quegli idranti automatici da giardino che girando in cerchio automaticamente, a scatti, innaffiano in maniera uniforme tutta la superficie erbosa. L’analogia del settimanale piu’ letto d’America prende le mosse dal modo in cui il candidato Repubblicano (oggi grande favorito) si muove nei comizi, in cerchio, in modo un po’ robotico, e a piccoli passi cosi’ da trovarsi prima o poi faccia a faccia con tutte le zone della platea.
In realta’ la metafora di Joe Klein - firma di punta del ‘Time’ e autore della storia di copertina dal titolo “Perche’ non piaccio” – riguarda il modo in cui Romney si muove politicamente, cambiando posizione, a seconda del momento, sui temi cari all’elettorato repubblicano, gradualmente per non spaventare nessuno e in modo da “innaffiare” un po’ tutti, compresi quegli elettori di centro, i famosi ‘indecisi’ che una volta superato lo scoglio delle primarie gli saranno indispensabili per fronteggiare Barack Obama.
La metafora funzionava un mese fa – quando ancora gli sfidanti repubblicani erano sette e a turno, nei sondaggi, l’avevano superato un po’ tutti - e funziona oggi con la nomination che dopo la vittoria in Iowa sul filo di lana e il trionfo del New Hampshire, comincia gia’ a tingersi di una certa inevitabilita’. Nessun repubblicano infatti (che non fosse gia’ presidente) aveva mai vinto entrambi gli Stati (Iowa e New Hampshire) che tradizionalmente votano per primi.
In effetti, quelle stesse caratteristiche che lo danneggiavano, quando i numeri riguardavano solo preferenze teoriche, lo stanno premiando, ora che i numeri contano davvero. In parte - occorre aggiungere - anche a causa degli avversari che ha.
Tanto per cominciare durante il numero record di dibattiti televisivi autunnali, Romney (Rudyard Kipling mi passi la parafrasi) ha tenuto salda la testa mentre, a turno, gli altri perdevano la loro. Rick Perry che dimentica in diretta i ministeri che propone di tagliare, Herman Cain (ritiratosi dopo l’emergere di un passato costellato di molestie sessuali) che confonde la Libia con l’Egitto. Altri, come Ron Paul, che propongono di eliminare completamente la presenza americana nel mondo o, come Michelle Bachmann (ritiratasi anche lei all’indomani della figuraccia in Iowa), le tasse. Romney al contrario si e’ dimostrato stabile, costante, affidabile.
A cominciare dal suo curriculum, sia pubblico che privato. Negli anni ‘50 e ’60 il padre, George Romney, fu un protagonista a Detroit del boom dell’automobile made in USA, come amministratore delegato di un colosso dell’auto prima e da governatore del Michigan, poi. Lui , Mitt non gli e’ stato da meno: nei primi anni 70’ prende contemporaneamente due master - in legge ed economia – ad Harvard. Rimane a Boston, a lavorare con la finanziaria Bain Capital: nel 1984 ne diventa amministratore delegato e la guida fino al 1999 fino a trasformarla in una delle maggiori compagnie di investimento d’America, responsabile (in senso buono) per la nascita, la cresicta e il successo di famosissime catene di vendita al dettaglio come Staples, Brookstone, Domino’s Pizza.
“Io capisco il business!” e’ uno dei suoi slogan piu’ usati. Solo che il
“business” in questione e’ quello dei grandi investimenti che se da un
lato produce posti di lavoro, dall’altro non esita, nell’acquisire
aziende in crisi per rivenderle o ristrutturarle, a mandare centinaia, a
volte migliaia, di lavoratori a casa. Su questo campo lo stanno
attaccando i suoi avversari “interni”, dipingendolo come un’esempio di
capitalismo “rapace”, gradito a Wall Street (visto che ha anche votato
il pacchetto ‘salvabanche’ di Obama) ma dannoso per l’americano medio.
Di sicuro un business che Romney capisce bene e’ il suo: a 64 anni di
eta’ il suo capitale personale sembra ammonti tra i 190 e i 250 milioni
di dollari: ricchezza che oltre a provarne le capacita’ manageriali
potrebbe tornargli utile nel Paese con le campagne elettorali piu’
costose del mondo.
Nel privato, poi, Romney e’ praticamente intoccabile: l’essere sposato da
42 anni con la stessa donna gli da un enorme vantaggio di immagine ad
esempio sul cattolico Newt Gingrich, ex presidente della Camera,
politicamente molto piu’ esperto e coerente di lui, sposatosi per ben
tre volte tradendo regolarmente la moglie attuale con quella successiva.
Ma per gli americani, si sa, le scappatelle fisiche sono piu’ gravi di
quelle politiche.
Ecco perche’, ad esempio, firmare in Massachusetts (roccaforte
democratica di cui fu governatore dal 2003- 2007) la riforma sanitaria
che costringe lo Stato a garantire l’assicurazione a chi non puo’
permettersela – riforma da cui Obama ha preso spunto per la sua a
livello federale – non sembra, almeno per ora, danneggiarlo piu’ di
tanto.
E non lo danneggia nemmeno il suo essere mormone – attivo, tra l’altro,
nella gerarchia. Dopo tutto tra gli sfidanti rimasti ce ne'e’ anche un
altro, Jon Huntsman, insieme a due cattolici, Gingrich e Santorum, e due
soli protestanti, Perry e Paul.
Evidentemente in una nazione in crisi, la chiesa frequentata dal
presidente conta fino a un certo punto - anche in casa repubblicana.
Per quanto riguarda la ‘chiesa’ politica invece l’”annaffiatoio” Romney
non sembra averne una specifica. Negli ultimi tempi ha spruzzato sempre
piu’ verso destra aggiustando il tiro su tutti i temi cari ai
repubblicani: aborto, immigrazione, controllo delle armi, politica
estera eccetera. E si e’ anche guadagnato la benedizione del senatore Mc
Cain che ricordiamo lo sconfisse alle primarie quattro anni fa. Ma c’e’
da scommettere che appena guadagnata la nomination il getto si
dirigera’ di nuovo, gradualmente, verso il centro. Anche per questo il
‘robotico’ Mitt Romney non entusiasma e non emoziona, ne i votanti ne
tantomeno i media a cui si concede poco e controvoglia.
Eppure i numeri finora parlano chiaro: in democrazia e’ meglio piacer
poco a tanta gente, piuttosto che il contrario.
Dopo i ritiri di Herman Cain – il magnate afroamericano della pizza stroncato politicamente da scandali sessuali passati e palese incompetenza presente -, di Michelle Bachmann - troppo radicale, anche per i repubblicani, su tasse e spesa pubblica – e quello appena annunciato di Jon Huntsman - il diplomatico dai modi gentili dissuaso dal misero terzo posto ottenuto in New Hampshire - i pretendenti al trono di “sfidante di Obama” sono rimasti in quattro, tutti uomini, tutti bianchi e nessuno sotto i 50 anni. Li passiamo rapidamente in carrellata, in ordine alfabetico, e con la netta impressione che il prossimo voto in South Carolina portera’ a questa lista un’ulteriore scrematura.
Newt Gingrich
Se Romney “capisce il business” come recita il suo slogan preferito, Gingrich capisce la politica, o se non altro la conosce bene. Qui ancora ricordano la sua “rivoluzione conservatrice” con cui dopo le elezioni di medio termine del 1994, l’allora deputato della Georgia divento’ presidente della Camera e mise Bill Clinton in minoranza. Un esperto ‘insider’ insomma, che pero’ dopo i miseri risultati in Iowa e New Hampshire ha cominciato ad attaccare duramente Romney per la sua carriera nel grande capitale, lontano dai problemi economici della gente comune. Politicamente piace agli ultra conservatori e ai sostenitori del ‘Tea Party’, l’ala ultra liberista, extraparlamentare del partito, rimasta orfana con il ritiro di Michelle Bachmann. Un po’ meno agli evangelici, per i tre matrimoni alle spalle e una storia di dubbia condotta morale. Un terzo fiasco, in South Carolina, dove gli evangelici non mancano, potrebbe essergli politicamente fatale.
Ron Paul
Vera e propria mina vagante del partito Repubblicano, Ron Paul e’ liberal
quanto i democratici su temi sociali come la droga e le unioni di
fatto, ultraliberista e anti-tasse quanto il ‘Tea Party’. Ma a differenza
degli uni e degli altri, isolazionista in politica estera, al punto di
proporre il ritiro totale da tutte le operazioni americane nel mondo. Ha 76
anni, da 20 deputato del Texas e da almeno quattro spauracchio
dell’establishment Repubblicano (cioe’ dalle primarie del 2008 quando
ottenne pochi delegati ma dimostro’ grande capacita’ di raccogliere
fondi e votanti indecisi). Da questi ultimi, specialmente giovani,
delusi dalla politica tradizionale, Paul ha ottenuto i voti sufficienti a
garantirgli un solido secondo posto in New Hampshire (23%) e (con 12
milioni di dollari in cassa) la certezza di non uscire dalla corsa, a
prescindere dai responsi degli Stati piu’ conservatori. L’idea, non
uffciale, ma scontata per gli analisti e’ quella di correre da
indipendente alle elezioni di Novembre dove le chance di essere eletto
saranno inversamente proporzionali al rischio di sottrarre al partito
voti preziosi.
Rick Perry
Cresciuto politicamente all’ombra di George W Bush ne continua l’opera -
dal 2000 come governatore del Texas, dopo essere stato il suo vice – e
l’ideologia, comprese le solide convinzioni nell’efficacia della pena
capitale e nel diritto dei cittadini di possedere armi da fuoco (al
punto da farsi intervistare dalla South Carolina in un negozio di
fucili). Nei sondaggi dell’estate scorsa sembrava il ‘predestinato’,
grazie un immagine energica, convincente, da uomo del popolo. Poi, i
dibattiti e la serie imbarazzante di amnesie e gaffe, che lo hanno
ridotto addirittura a saltare il New Hampshire per concentrarsi, gia’ in
odore di ultima spiaggia, sul South Carolina dove da almeno un paio di
settimane sembra stia cercando, insieme a Gingrich, di convincere gli
elettori a non votare per Romney piuttosto che a votare per lui. La
nomination a questo punto appare improbabile. Piu’ plausibile un
incarico da vice, magari “ripescato” da un candidato col bisogno di
riavvicinare a se la parte piu’ “popolare” dell’elettorato.
Rick Santorum
E’ il “volto nuovo” dei conservatori americani e il vero outsider di
queste primarie. Dalla sua, il 54 enne ex senatore della Pennsylvania ha
una grande coerenza di voto sui temi morali, come aborto, matrimonio
gay, eccetera. E la sorpresa dell’Iowa dove nonostante una campagna
elettorale “al risparmio” ha sfiorato la vittoria, per soli otto voti su
quasi 110,000 totali. Cattolico dichiarato e convinto, padre di otto
figli, l’avvocato cresciuto nella Pennsylvania rurale sembra in sintonia
con i tanti votanti repubblicani cosiddetti ‘evangelici’ ovvero coloro
che mettono la fede (spesso protestante, in verita’) al centro della
propria vita, e dunque delle proprie scelte politiche. Quel che Santorum
non ha e’ un’immediata riconoscibilita’ a livello nazionale e una
macchina efficiente di raccolta fondi. In fondo pero’ nemmeno Obama alle
primarie del 2004 era granche’ conosciuto, e i soldi, si sa vengono con i voti. Per Santorum non e’ esclusa una altra affermazione in South
Carolina: se cosi’ sara’ andando avanti potrebbe catalizzare su di se i
contributi e i consensi dei prossimi ritirati. L’impressione generale e’
che, nomination o meno, sentiremo ancora parlare di lui.
Come fa ogni quattro anni da piu’ di due secoli, l’America, nel primo martedi’ di novembre, eleggera’ il proprio Presidente, figura potentissima, lo ricordiamo non solo perche’ a capo della nazione, economicamnete e militarmente piu’ influente al mondo, ma anche perche’ secondo la Costituzione degli Stati Uniti, il Presidente incarna in se’ l’intero esecutivo, con facolta’ - in teoria - di scegliere personalmente, senza il benestare ufficiale di nessuno, ministri e collaboratori. L’inquilino della Casa Bianca e’ inoltre, sempre secondo Costituzione, il comandante in capo delle forze armate con facolta’ esclusiva – sempre in teoria – di dichiarare guerra.
I due partiti principali Repubblicani e Democratici nomineranno il proprio candidato alla convention ovvero il congresso plenario del partito. I Repubblicani lo terranno a Tampa, in Florida, l’ultima settimana di agosto, mentre i Democratici si riuniranno a Charlotte, North Carolina, la settimana successiva. Alle rispettive convention i delegati del partito, provenienti da tutti e 50 gli stati, nomineranno formalmente il loro candidato. In teoria, ed alcune rare volte anche in pratica, si vota per il candidato ma in realta’ nella maggior parte dei casi la nomina e’ solo uno spettacolare proforma.
La vera selezione avviene alle ‘primarie’, ovvero le elezioni interne a ogni partito che da gennaio a giugno si svolgono Stato per Stato creando via via che ci si avvicina alla convention una sorta di “selezione naturale”.
In America per votare bisogna prima registrarsi. Lo si puo fare in tre modi: come Democratici, come Repubblicani o come Indipendenti. Le primarie, a seconda degli stati possono essere “aperte” o “chiuse”. In quelle aperte possono votare tutti (a patto che si voti per un partito soltanto). Ad esempio in un primaria aperta se un elettore registrato Repubblicano vuole votare nelle primarie Democratiche, puo’ farlo. Poi pero’ non puo’ votare anche in quelle democratiche. Nelle primarie chiuse invece i Repubblicani accettano solo i voti degli elettori registrati come Repubblicani e altrettanto fanno i Democratici.
Chiuse o aperte che siano il voto alle primarie e’ sempre segreto.
In alcuni stati le primarie prendono la forma di “caucus” (si pronuncia
cocus, con accento sulla ‘o’), una forma antica e affascinante di
democrazia diretta che ricorda vagamente I Cantoni svizzeri ai tempi di
Rousseau. Al caucus, che in pratica e’ una primaria chiusa con voto
palese, gli elettori si riuniscono, si dividono fisicamente in gruppi a
seconda del candidato di preferenza e ascoltano i comizi dei
sostenitori dei vari candidati che durante la serata tentano di far
cambiare idea al maggior numero di votanti possibili. A fine serata il
voto si esprime “all’antica”, per alzata di mano ad esempio o con altri
metodi coreografici e creativi.
Tecnicamente caucus e primare servono a selezionare, Stato per Stato, i
delegati che alla convention voteranno per l’uno o l’altro candidato.
Questa selezione avviene in modo diverso per ognuno dei due partiti. I
Democratici usano il metodo proporzionale mentre i Repubblicani quello
maggioritario. In altre parole, in casa democratica i delegati
all’interno di ciascuno Stato vengono scelti in base alla percentuale
dei voti ottenuti dai candidati, mentre in casa repubblicana il
candidato che vince lo Stato se li prende tutti. Non a caso il sistema
maggioritario in inglese si chiama “winner-takes-all”, vincitore
pigliatutto.