Jorge e Mario e basta, loro due da soli, senza ruoli e cognomi, senza manager né cerimoniali, liberi di essere per i cinque minuti di una fulminea fuga, al riparo dell’attenzione del mondo, liberi di parlarsi da uomo venuto dalla fine del mondo a uomo venuto dalla fine del mondo, però dall’altra parte.
Si sono incontrati come si dice non si possa in alcun modo fare, rompendo ciascuno il cerimoniale del suo mondo, rompendo ciascuno l’ordine costituito della propria tribù, che li inchioda ciascuno al proprio ruolo.
Mario ieri sera ha strappato l’impossibile, ha rubato il fuoco come Prometeo, si è preso quello che non poteva avere, ma non con la protervia del consueto, non gridando il suo proverbiale lei non sa chi sono io, ma con l’umile consapevolezza di pecorella (e pecorella nera) sgattaiolata di frodo al cospetto del suo buon pastore.
Non l’avrebbe fatto con un papa diverso, non l’avrebbe fatto se Francesco non fosse Francesco, il pastore che arriva a tutte le pecorelle, anche le più smarrite, perché mostra se serve di saper spezzare il legno del suo disciplinato recinto. Stavolta superMario non avrebbe rotto le righe che delimitano il suo campo se Francesco non avesse fatto prima lo stesso tante volte con il proprio. Non sapremo mai che cosa si sono detti davvero, loro così lontani eppure così vicini, in quei cinque minuti imprevisti e imprevedibili. Ma sappiamo che sono cinque minuti che hanno rivoluzionato un poco il mondo come l’abbiamo conosciuto fin qui. Un mondo che da ieri sera ha uno steccato in meno e un ponte in più.