Per un ragazzo di provincia aspirante giornalista nei primi anni Settanta, Demetrio Volcic non era una firma di successo e nemmeno un inarrivabile esempio professionale. Era di più, molto di più: un mito. Vederlo in televisione, circonfuso di aplomb austro-ungarico, mentre raccontava i fatti del mondo che stava “oltre la cortina di ferro”, ovvero oltre le colonne d’Ercole del mondo praticabile, trasmetteva una sensazione di sovrumana competenza (il Comitato centrale del Partito comunista dell'Unione sovietica, il Politburo, i misteriosi riti della nomenklatura di cui conosceva vita morte e miracoli…) e di coraggio. Era il nostro uomo dietro le linee nemiche, più o meno.
Ora che è morto, alla rispettabile età di 90 anni ma comunque troppo presto, chi ha una qualche passione per la Russia e per l’Est in generale non può non rimpiangere una stagione del giornalismo che aveva per protagonisti uomini appunto come Volcic, Enzo Bettiza o Frane Barbieri, personaggi che avevano radici familiari e culturali tra mondo slavo e mitteleuropeo (Volcic era nato a Lubiana, in Slovenia, 22 novembre 1931, ed è morto a Gorizia, il 5 dicembre 2021) e quindi trasmettevano, anche nel grande surgelamento della Guerra Fredda, la sensazione che molti confini fossero più artificiali e permeabili di quanto potessimo credere, che la mescolanza dei popoli e delle idee fosse non un’anomalia ma un destino inevitabile e affascinante.
Quando arrivai a Mosca come corrispondente di Famiglia Cristiana, nel 1992, la ventennale corrispondenza di Volcic volgeva al termine. Sarebbe rientrato in Italia nel 1993 per diventare direttore del Tg1 e poi, nel 1997, senatore del Partito democratico della Sinistra. Ma se credete alle parole che ho scritto all’inizio, potete capirmi se dico che fu un’emozione forte, entrando nella sede Rai di Prospekt Mira, trovarsi di fronte la fotografia del Cremlino che faceva da sfondo a tutti i suoi servizi da studio. Ce n’era una versione estiva con il cielo azzurro e una invernale con la neve. La contemplai a lungo, con la sensazione di essere finalmente arrivato al centro del mondo. Lo conobbi personalmente, invece, in un’altra occasione, la Prima Comunione di alcuni ragazzi della piccola colonia italiana di Mosca, tra i quali anche mia figlia Marta. Lui chiacchierava amabilmente e si aggirava tra le famiglie e i ragazzini con l’aria da gentleman che gli era così abituale. Parlava sei lingue e sapeva tutto di mezzo mondo, ma mai una posa, un atteggiamento, un vezzo. Ha insegnato, ha scritto libri, ha lavorato nelle commissioni parlamentari italiane e in consessi internazionali. Per più di una generazione, però, la sigla immortale di tanta professionalità resterà quel “da Mosca, Demetrio Volcic” che ci apriva la testa e il cuore sulla vastità e complessità del mondo.