Avete mai provato a disfarvi di un vecchio televisore o di un pc?
Se ne acquistate uno nuovo, il distributore del prodotto deve assicurare il ritiro gratuito dell'apparecchio che viene sostituito, il cui smaltimento dovrà avvenire in appositi e adeguati impianti. Il consumatore paga, infatti, nel costo di acquisto del nuovo prodotto, un eco contributo per lo smaltimento finale dei vecchi rifiuti.
Eppure troppi rivenditori non adempiono correttamente alla legge.
Buona parte degli apparecchi finisce poi nei Paesi in via di sviluppo – in teoria per colmare il divario digitale – in realtà a formare montagne di spazzatura inservibile.
Nella baraccopoli di Agbogbloshie, alla periferia di Accra, nel Ghana, c’è una delle discariche hi-tech più grandi del mondo. Computer, monitor e schede madri vengono qui bruciati per ricavarne rame, ottone, alluminio e zinco da rivendere producendo residui tossici che contaminano l’aria, l’acqua, la terra. E le persone. Agbogbloshie è il tema dell’ultimo lavoro del fotografo sudafricano Pieter Hugo: espone le sue foto in una mostra che si è appena inaugurata al MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma. Rimarrà aperta fino al 29 aprile 2012, nell’ambito di “RE – CYCLE, Strategie per l’architettura, la città e il pianeta”.
Pieter Hugo, come altri fotografi della generazione post-apartheid, ha
il merito di riuscire a indagare la condizione umana dei soggetti che
vivono in questi contesti di marginalità, utilizzando principalmente il
ritratto.
I personaggi ritratti sono allo stesso tempo forti e vulnerabili:
ispirano “simpatia” e rispetto perché riconosciamo in loro la grandezza
dello spirito umano che, anche in condizioni estreme, trova il coraggio e
l’orgoglio di affermare la propria identità. Sono immagini forti,
attraenti ma allo stesso tempo spaventose, addirittura “scabrose”.
Nella discarica di Agbogbloshie, in un’atmosfera da girone dantesco,
vediamo uomini e donne che si aggirano tra falò e cumuli di rifiuti
informatici, mentre vacche e buoi pascolano placidi tra i miasmi tossici
del terreno.
Gli uomini ritratti nella discarica sono, secondo i critici “un po’
martiri, un po’ demoni, con le aureole di fili elettrici, le vesti
eccentriche e gli attributi di santi di cui non riconosciamo
l’iconografia” e soprattutto “mettono in crisi la nostra capacità di
definirli e di conseguenza di definire noi stessi. Inquietanti come un punto interrogativo a cui manca persino la domanda”.
Emblematico, infine, il titolo della mostra, “Permanent error”.
Nel gergo informatico significa “un errore che si verifica quando un
settore della memoria di massa viene erroneamente modificato con la
sovrascrittura di altri dati e può essere corretto solo con la
formattazione completa del disco e la riscrittura del settore stesso”.
Peccato che, come ricorda Pieter Hugo, il pianeta Terra non sia
ri-formattabile.