LUTTO - Alfabeto per il futuro - 6a puntata Parole per il domani
Con il tema “lutto” prosegue la serie di articoli sulle parolechiave che, lette con gli occhi della fede, possono aiutarci a ripartire dopo la catastrofe del Coronavirus.
Sforna una torta, accende le candeline, poi raggiunge il giardino, scava una buca e la sotterra. Mentre è intenta nel suo rito dolente, la mountain bike del figlio la sfiora, solleva schizzi di fango, si allontana rabbiosa. Lucia e Gabriel, nell’ultima sequenza del film li ritroveremo vicini: ci sono voluti dei mesi per attraversare le poche centinaia di metri che separano la casa di famiglia dal cimitero dove è sepolta Anna, figlia e sorella. Li hanno percorsi lottando contro il dolore che non ha parole, che diventa rifiuto, follia, rabbia, fuga. Si ritrovano, si sfiorano, accennano un sorriso... Al Dio ignoto è un film che ti mette davanti la grande evidenza della morte. È uscito nei mesi della pandemia, quando le televisioni proponevano a un Paese chiuso in casa le immagini di centinaia di bare portate via dai camion dell’esercito. «Questo virus che sfugge, presenza di un’assenza letale, che non possiamo combattere ad armi pari, è la metafora di ciò che la società ha fatto finora: rimuovere in modo sistematico una componente centrale e non finale dell’esistenza, la morte e il morire, una dimensione dell’essere che è stata negata, repressa, vilipesa, dimenticata, ridicolizzata», dice Rodolfo Bisatti, il regista del film.
Sessant’anni, originario di Padova, ha collaborato per circa vent’anni con Ermanno Olmi («da lui ho imparato tanto, ma soprattutto l’integrità: tra il fare una cosa stupida che ha tanto pubblico e una di qualità che ne ha poco, scelgo la seconda»). Ha tre figli, vive a Trieste, la sua compagna è Laura Pellicciari, produttrice e protagonista del film. È un marxista che frequenta templi e cattedrali.
La scelta di fare un film sull’elaborazione del lutto viene da lontano, da una richiesta di Olmi, che nel 1999 lo manda a fare un documentario all’hospice Domus Salutis di Brescia. Le cure palliative, praticate in Inghilterra già dagli anni Cinquanta, da noi non erano ancora pubbliche. «Sono rimasto per mesi dentro questa struttura gestita dalle Ancelle della Carità. Ci sono sempre delle suore dietro gli hospice».
Nel dibattito tra suicidio assistito ed eutanasia, «spesso ideologizzato da squadre politiche», sottolinea Bisatti, «nessuno parlava delle cure palliative, che consentono a una persona in un forte stato di disagio psico-fisico di riuscire a intensificare la sua forza vitale fino all’ultimo giorno. Creando una relazione, un accompagnamento, una terapia del dolore non invasiva».
Undici anni dopo il documentario, Bisatti torna ora a parlare della morte con un racconto.
Storia di un lutto
«Tutti abbiamo dei lutti tragici. Il mio migliore amico si è suicidato a 33 anni. I miei maestri se ne sono andati. E poi quando è morto mio padre, che era mio maestro vero, è tornata l’urgenza di raccontare. Quest’opera è stata commissionata dai vivi ma anche dai morti. Dopo una settimana che mi accingevo a scrivere, si sono presentate le donne che hanno perso i figli, e la madre di cui parla il film».
Al Dio ignoto è ispirato a una storia vera, leggermente modificata. Francesco Cerutti, che interpreta Gabriel, è il vero fratello della ragazza morta per leucemia, Susanna, ricordata nei titoli di coda. «Lui ha utilizzato il film per elaborare una parte del suo lutto. Per noi il cinema è una forma di vita, detesto la pantomima».
Per realizzare il film il regista ha condiviso la vita di malati, medici, famiglie. «Nell’hospice di Milano, mentre facevo i sopralluoghi, due persone iscritte a “Exit”, il programma di suicidio assistito in Svizzera, dopo una settimana di trattamento hanno deciso di non andarci più. Hanno scoperto un’altra strada. Le cure palliative sarebbero l’umanizzazione della medicina, che si ha paradossalmente quando non c’è più niente da fare rispetto al guarire, ma c’è molto da fare rispetto al curare. È la medicina più avanzata, che accompagna amorevolmente queste persone e anche i familiari. Ho visto pazienti diventare quasi dei maestri e ho voluto raccontarli».
Il tema più in generale del confine ultimo della morte tocca il regista anche da un punto di vista culturale. Perché il rapporto con chi ci lascia è il segno di una civiltà. «Ho sempre avuto una venerazione per chi non c’è più, noi viviamo sulle fondamenta di chi è arrivato prima di noi. La rimozione del rito del ricordo la trovo una cosa barbarica, di un laicismo e un ateismo che non sono portatori di un’alternativa, ma di un azzeramento dell’essere umano. Questa è stata la mia drammatica riflessione nei giorni del lockdown».
Bisatti scava in una ferita collettiva: «Diciamoci la verità: quello che è successo con il Covid — persone strappate alle famiglie, messe in terapia intensiva, senza relazioni con i parenti, morte e sepolte senza funerali — è una barbarie inconcepibile. Non c’è virus che tenga».
Riscoprire il sacro
La lezione che si può apprendere da questo periodo così feroce «è che dobbiamo ricostruire totalmente il paradigma esistenziale e culturale di tutta la società. Dobbiamo recuperare il senso, la cultura, il sentimento del sacro, che è stato snobbato e messo all’ultimo posto nella scala dei valori. Sono questi gli elementi su cui possiamo ricostruire una cultura della consapevolezza». Una consapevolezza che parte dal personale, dalla mancata rimozione.
«Quando si raggiunge la maturità si dovrebbe cominciare a gestire il proprio tempo in modo virtuoso e a prepararsi a questo momento. Così come ci si prepara per un lavoro, per un matrimonio, per fare dei figli, ci si deve organizzare per questo che è fondamentalmente un rito di passaggio». Insomma, «se una persona vive nella consapevolezza della morte e non nella sua rimozione, può anche rischiare di vivere intensamente».
«Si usano tante parole — finito, lasciato, dipartito… — per dire una cosa semplice. Arrivederci»: sono le battute che, nel film, Bisatti fa pronunciare a un anziano professore, interpretato da Paolo Bonacelli. «Se guardi l’universo, anche se sei uno scienziato, non puoi concepire la morte come l’azzeramento radicale di ogni forma di pensiero e di anima. Abbandoniamo un corpo fisico, ma non si muore mai. Non finisce qui, arrivederci, ci sono ancora», spiega il regista.
Fare i conti con il lutto, tocca a tutti, prima o poi. «Io, per elaborare i miei, ho onorato queste persone, sono andato al cimitero, cosa che può essere anche disdicevole per un intellettuale che viene collocato in un’area di sinistra. Ma non la trovo una contraddizione. Sono un assiduo frequentatore di templi e cattedrali e penso che la rimozione dell’elemento spirituale sia stata il fallimento del comunismo: lo Stato sociale sì, ma purché anche l’anima abbia una sua condizione esistenziale. Siamo esseri non solo materiali, ma anche spirituali. Questa è la mia posizione ideologico-politica».
Ritrovare un senso
Una delle scene più forti, che dà poi il titolo al film, è quando durante la Messa viene recitato come salmo una poesia di Nietzsche, Al Dio ignoto. «Un vecchio comunista cattolico come me non poteva non farlo: è un’espressione di san Paolo negli Atti degli Apostoli, ma è anche una poesia di Nietzsche, straordinariamente profonda e intensa, che viene recitata da vere suore. È stata una cosa sublime questa riunificazione del pensiero attorno al concetto di sacro. Se perfino il filosofo dell’anticristo si relaziona a questa potenza misteriosa, vuol dire che non possiamo far finta che non sia una dimensione che aleggia nella società, anche se sopita. Dobbiamo indagare, individualmente, perché è lì che possiamo agganciare il senso della nostra esistenza. In Occidente dobbiamo riaffermare con forza la nostra tradizione giudaico-cristiana come un bene non solo da un punto di vista religioso, ma culturale. Riprendiamoci in mano questo sentimento del sacro: se lo fa Nietzsche, non capisco perché non dobbiamo farlo noi, mi rivolgo soprattutto al pubblico laico». Nei titoli di coda scorrono i ringraziamenti a medici, specialisti e a nomi familiari a chi frequenta il mondo cattolico, come don Damiano Modena, che è stato segretario personale del cardinal Martini e lo ha assistito negli ultimi anni, padre Silvano Fausti, le suore di san Vincenzo de’ Paoli.
Valori per l'uomo
E la Chiesa? «La Chiesa secolare ne ha combinate di tutti i colori nel corso della storia, ma siamo legati a questa istituzione, che è parte della nostra cultura. L’importante è capire che chi sposa questa cultura deve sempre partire dagli ultimi. Che sono gli extracomunitari, o coloro che devono morire domani, quelli che non hanno casa, o un soldo per mantenere la famiglia. Se non partiamo da qui non si riuscirà mai a ricostruire una società. Questi sono valori centrali, non solo del cristianesimo. Anche se in questo momento storico l’unico che sento vicino è papa Francesco, che tra l’altro è stato l’unico a parlare a noi artisti. Mi sento sempre più vicino a tornare a casa».