Disorientamento è allontanamento dall’Oriente e al tempo stesso smarrimento. E “smarrimento” sembra il nome dell’Occidente odierno, post-tutto, post-moderno, post-cristiano, post-secolarizzato… Il suo tramonto era stato brillantemente profetizzato, negli anni venti del secolo scorso, da Oswald Spengler, la sua sconfitta sembra ineluttabile, anche al cospetto di vicende come quella di Silvia Romano, la giovane milanese rientrata (liberata?) dal Kenia e convertitasi alla religione islamica. Il credente nel Dio di Gesù Cristo non può non sentirsi ferito da questa conversione-metamorfosi, e quindi non può non interrogarsi, mentre, come giustamente invita padre Giulio Albanese dalle pagine del Corriere della sera, adotta un silenzio rispettoso, ma non per questo meno attento, di fronte a quanto legge sui giornali o apprende dai telegiornali e dalla rete.
Eppure, da credente talvolta pensante, non posso non rilevare la fiammella luminosa che brilla fra le tenebre di questa apparente e rilevante sconfitta, culturale e religiosa insieme, del contesto al quale quotidianamente mi abbarbico e sul quale mi arrampico, per non soccombere alla deriva nihilista e all’abisso nel quale rischiamo tutti di sprofondare. E una prima “luce gentile” (J. H. Newman) ci viene incontro e ci fa riflettere sul fatto che la persona umana ha un irriducibile primato su ogni altro valore o categoria. La sua vita non ha prezzo. La banale quantificazione, del “quanto abbiamo speso!” cui tenta di soggiogarci il pensiero calcolante-dominante, rischia di fatto, come spesso accade, di reificare/cosificare la persona e la vita umana, considerandola merce di scambio, piuttosto che, come sosteneva I. Kant, “fine” e non “mezzo”, “strumento” di potere o di guadagno o di successo, eventualmente elettorale o mediatico. Chissà quando apprenderemo la lezione rosminiana della persona diritto sussistente”, intanto essa carsicamente si introduce in scelte difficili e per certi aspetti discutibili e discusse, al di là delle intenzioni di chi le mette in atto.
Ma ancora, e alla vigilia di una preghiera multireligiosa del 14 maggio nel contesto pandemico che stiamo vivendo, dobbiamo lasciarci interpellare da quel meraviglioso documento (dichiarazione) del Concilio Ecumenico Vaticano II, che porta il titolo Dignitatis humanae e che tratta della libertà di religione, come indicatore del diritto alla libertà tout court, fondato sulla coscienza, considerata, come attesta la Gaudium et spes, sacrario o “tabernacolo” della persona umana. Certamente non possiamo reclamare il diritto alla libertà religiosa solo in rapporto alla nostra appartenenza cristiana o cattolica, altrimenti saremmo ipocriti: dobbiamo riconoscerla a tutte le religioni, a tutti i culti, a ogni istituzione che pone l’uomo in relazione ad un’ulteriorità che lo trascende e lo interpella, indicando un senso dell’esistenza, che va oltre l’immediata immanenza del mondano. C’è, come affermava il filosofo marxista eterodosso Ernst Bloch (nel suo Principio speranza), un Kern des Existierens, un nocciolo dell’esistenza, irriducibile, inviolabile, assolutamente sacro, di fronte al quale si può solo tacere e adorare. E si chiama, col linguaggio dell’ormai stanco Occidente, “coscienza”. Questo nucleo non negoziabile e indisponibile ad ogni cattura ideologica, politica o economica, ci situa in una estraterritorialità rispetto alla morte, in quanto ci rende unici, noi stessi, attraverso le nostre decisioni, che sono autentiche nella misura in cui si fondano su emozioni e riflessioni. La dichiarazione conciliare afferma che la verità non si impone che per la sua stessa forza e che non ha bisogno di coercizioni esterne di tipo mondano. La decisione sul senso da imprimere alla propria esistenza è affidata alla coscienza incoercibile della persona. Certo, in condizioni, di fragilità, solitudine, prigionia, tale coscienza può risultare offuscata e la libertà fortemente limitata, ma il suo lumicino nessuno ha potere di spegnerlo del tutto e in maniera definitiva.
Nonostante l’acuta percezione della sconfitta culturale, politica e religiosa del nostro Occidente, che si mostra nell’incapacità di sostenere la fragilità di chi, donandosi, si è ritrovato prigioniero, se si riflette in profondità, non si può non intravedere la luce fioca e intermittente, originata da una cultura, che, per le radici nella fede nel Dio di Gesù Cristo, anche attraverso le sue sconfitte, non manca, nemmeno in queste occasioni, di esprimere il primato della persona e il diritto innato alla libertà di coscienza, che ogni ragionevole appartenenza, politica o religiosa, etnica o culturale, dovrebbe riconoscere. Nelle tenebre si manifesta la luce, nella morte la vita e il tramonto non segna solo la fine di una giornata, ma anche l’inizio del domani, come dal vespro nasce il nuovo giorno.