Tommy ha venti anni, è un bel ragazzone alto e riccioluto, ma è chiuso nel suo mondo senza parole. Con suo padre, il giornalista radiofonico e televisivo Gianluca Nicoletti, ha un legame forte, fatto di abbracci e di silenzi a volte complici, come quando lo osserva lavorare nel suo studio tranquillo e accogliente nel centro di Roma. Tommy è autistico. Ma anche il papà lo è, sindrome di Asperger per la precisione, una forma più lieve di autismo. Lo ha scoperto da poco, all’età di 63 anni, e questa consapevolezza lo ha avvicinato ancora di più a suo figlio e lo ha spinto a scrivere un libro, Io, figlio di mio figlio (Mondadori), una naturale prosecuzione degli altri due libri che Nicoletti ha scritto da quando, da semplice genitore, è diventato un portavoce di tutte quelle famiglie, sempre più numerose, che in Italia affrontano una situazione difficile come la sua.
Come è arrivato alla diagnosi di sindrome di Asperger?
«È stata una battuta buttata lì quasi per caso da un’amica neuropsichiatra. “Hai mai pensato di essere autistico anche tu?”. La sua è stata un’intuizione, frutto anche di un’attenta osservazione del mio comportamento. Allora ho deciso di cercare uno specialista che potesse verificare le sue parole. Mi sono sottoposto a lunghi test e in effetti aveva ragione: certo il mio è un autismo ad alto potenziale, ho un quoziente intellettivo altissimo, 142, che mi ha permesso di avere una vita normale. Eppure ho una percezione diversa dagli altri e ho dovuto lottare ogni giorno per avere una vita socialmente accettabile, pur avendo una grande ricchezza di relazioni. D’altronde l’autismo è ereditario, si trova nel patrimonio genetico».
Hai scoperto maggiori affinità con tuo figlio?
«So di essere una persona eccentrica e un po’ pazzerella. Io e Tommy stiamo bene nel nostro studio che è costruito su misura per noi, che non amiamo i rumori forti, e in cui siamo lontani dalla gente, nel silenzio, con le luci attenuate».
Invece quando vi siete accorti che vostro figlio era autistico?
«A tre anni ancora non parlava. Allora non c’erano molte informazioni, siamo stati rimbalzati da un posto all’altro, fino a quando è arrivata la diagnosi. Ma ormai era troppo tardi per intervenire con una specifica metodologia, il metodo Aba, l’analisi applicata del comportamento, e ancora adesso che ha venti anni, Tommy dice al massimo due parole».
Com’è la sua vita ora?
«Piena di tante attività: al mattino va a scuola, fa sport, va a cavallo, fa anche musica, è abbastanza docile e interagisce con gli altri ragazzi autistici. Prima ha frequentato una scuola d’arte, ora va a un istituto agrario. Ma la sua vita gliela costruiamo io e sua madre giorno per giorno. Non lo possiamo lasciare solo un minuto, potrebbe fare pazzie, anche saltare giù da una finestra, abbiamo le mezze inferriate. È come un bambino piccolo e anche in strada bisogna stargli sempre vicini. Poi ci sono i momenti di crisi, quando accade qualcosa di imprevisto, perché non riesce a gestire l’ansia. Per esempio, eravamo in auto per tornare a casa e io ho dovuto cambiare percorso per il traffico: lui allora ha cominciato ad agitarsi, mi ha preso le mani mentre guidavo».
Hai cominciato a scrivere di lui quando aveva 14 anni. Cos’era accaduto in quel momento?
«L’adolescenza è stato il periodo più brutto. Da bambino è diventato uomo, e di colpo ha cominciato ad avere attacchi oppositivi, ha persino incrinato una costola alla madre. Era grande e grosso, è alto 1,90 e pesa 100 chili, la mamma non ce la faceva più e me ne sono preso più carico io, aveva bisogno della figura maschile».
Poi quando ha compiuto 18 anni è arrivato il documentario Tommy e gli altri...
«Il passaggio della maggiore età è stato fondamentale, in Italia esiste solo l’autismo infantile. Io stesso per trovare uno psichiatra che mi facesse una diagnosi ho faticato. Con questo documentario siamo andati in giro per l’Italia a riprendere la vita di giovani autistici. Lo abbiamo portato nei licei per far capire ai ragazzi che cosa c’è dietro un compagno che a loro appare un po’ strambo».
Che tipo di rapporto hai con tuo figlio?
«È la persona più importante della mia vita perché lui non potrebbe fare a meno di me. Abbiamo un grande scambio affettivo».
La scoperta di avere la sindrome di Asperger vi ha avvicinati?
«Io lo sentivo già affine a me, stiamo bene assieme, abbiamo lo stesso punto di vista, ci piace passeggiare, non stare in mezzo a tanta gente. Io credo che il mio lavoro di relazione mi abbia salvato. Mi costringe continuamente a buttare fuori il sovraccumulo di pensieri. Probabilmente se avessi fatto un altro lavoro sarei potuto finire suicida».
Tu sei molto attivo sul tema dell’autismo…
«Sì, sto diventando un punto di riferimento, collaboro anche con il Miur e con la Onlus Insettopia abbiamo un grande sogno, il Casale delle arti, un luogo speciale in cui i ragazzi possano sperimentare tante attività pratiche. Abbiamo già individuato un casale abbandonato di proprietà del Comune di Roma. Dovrebbe diventare un grande laboratorio sulla neurodiversità. Ma ancora siamo alle prese con un eccesso di burocrazia».
È vero che l’incidenza dell’autismo in Italia è aumentata molto?
«Si parla di un bambino su cento con sindrome dello spettro autistico. C’è sicuramente più attenzione e quindi più diagnosi, ma si brancola ancora nel buio per quello che riguarda le cause. Forse c’è una correlazione con l’aumento dei parti cesarei, si sospettano cause di tipo ambientale. Ma c’è ancora molto da fare, e il peso di queste persone continua a gravare soprattutto sulle famiglie».
(Foto in alto: Ansa)