Tareq è una bambina, tra le valkirie delle piscine dei campionati del Mondo di Kazan i suoi dieci anni spiccano per contrasto. Sembra capitata per errore dentro la gara sbagliata e forse per certi versi è così. Ma sulla carta del regolamento, quella che canta per decidere chi entra e chi no, il ragionamento di Tareq, che spiega didascalica la sua presenza ai giornalisti, non fa una grinza: “Ho fatto il miglior tempo del Barhain sui 50 farfalla e sono qui”.
Nel nuoto la Federazione internazionale (Fina) non ha infatti messo limiti di età ai Campionati del mondo, e in questo forse si può rimproverarle di non aver uniformato il regolamento ai 14 anni minimo della normativa federale europea e di quella olimpica, ma il fatto è che nel nuoto il problema non si è posto fino a ieri mattina, per il semplice fatto che in vasca le misure bonsai non sono d'aiuto, e dunque non c’è un reale rischio che da domani Paesi affamati di vittorie spingano in piscina bambini sempre più piccoli per spremere più medaglie.
Non a caso gli sport che hanno per primi introdotto i limiti di età: la ginnastica artistica e i tuffi, son proprio quelli in cui essere piccoli e leggeri conviene perché aiuta a girare in volo e lì infatti la corsa ai campioni bambini era cominciata (si pensi all’oro mondiale di Fu Mingxia a 12 anni nei tuffi, agli ori olimpici di Nadia Comaneci a 14 anni). E'stata arginata ponendo un limite di età a14 anni, per i tuffi, 16 per la ginnastica, da compiere entro il 31 dicembre dell’anno solare della manifestazione. E qui si può discutere se siano o meno adeguati.
Domani magari, ora che Tareq ha sollevato la questione, la Fina metterà i limiti di età anche al nuoto, ma probabilmente in questo modo non risolverà il problema che il caso Tareq ha sollevato, per la semplice ragione che al di là delle apparenze con ogni probabilità la presenza di Tareq a Kazan non è il risultato di un'infanzia negata, quanto l'esito indiretto di pari opportunità mancate. Da che cosa lo deduciamo? Dai tempi di Tareq in vasca, che ci dicono che Tareq non è una superbambina, ma una bambina, che nuota da bambina: i suoi risultati non si discostano dai buoni risultati delle sue coetanee italiane che fanno le prime gare giovanili.
E allora la domanda è: com'è possibile che il tempo di Tareq, un tempo da decenne, sia il miglior tempo del Barhain? Com'è possibile che le sue colleghe connazionali 17enni, 18enni, ventenni nuotino tempi peggiori dei suoi? E' possibile perché è altissimamente probabile che le ragazze del Barhain alle soglie dell'adolescenza smettano il più delle volte di nuotare perché non vengono incoraggiate a farlo, perché trovano difficoltà ad aderire alle regole internazionali sull'abbigliamento delle nuotatrici in gara, per una serie di ragioni che fanno sì che in alcuni Paesi lo sport non sia considerato un affare da donne. Una questione cioè di opportunità molto molto dispari. E allora forse il problema non è restituire a Tareq (e alle altre nuotatrici in erba come Tareq) la sua infanzia oggi, - dato che è probabile che abbia colto la sua superopportunità di partecipare soltanto, senza ambizioni, come un gioco divertente -, ma salvaguardare la sua possibilità di continuare a nuotare, se vorrà, in maniera competitiva domani, quando avrà un corpo di donna e quella opportunità potrebbe complicarsi.
E' evidente che una Federazione internazionale da sola mai potrà pretendere di "esportare" un concetto come quello delle pari opportunità, che pretende una lunga e complessa gestazione culturale, parallela a quella dell'avanzare della democrazia, dei pari diritti e della pari dignità, ma il caso Tareq potrebbe essere per lo sport tutto, l'occasione di dare impulso a un tema, quello delle pari opportunità appunto, che finora, a differenza di quello della discriminazione razziale, lo sport non ha davvero affrontato appieno.
Lo sport ha aumentato, è vero, via via sempre più con gli anni il ventaglio delle discipline sportive aperte alle donne, ma non approfondito (forse perché governato in prevalenza da brontosauri quasi tutti maschi e sensibili ai petrodollari?) la questione dei diritti delle donne. L'ha lasciata relegata alle provocazioni degli anni Settanta, come quella di Billy Jane King che nel tennis sfidò l'attempato collega Bobby Riggs ovviamente per dimostrare di poter competere alla pari con un maschio (e non è di questo che stiamo parlando). L'ha limitata alla generica ammirazione per eroine vere che certe convenzioni hanno sfidato anche a rischio della vita come la, minacciatissima, mezzofondista algerina Hassiba Boulmerka negli anni '80, senza però mai tradurre quell'ammirazione in un serio impegno di promozione culturale. L'ha anche rimossa, quella questione di diritti, quando ha chiuso completamente gli occhi facendo finta negli anni della guerra fredda di non vedere lo scempio del doping di Stato sui corpi delle donne - ancor più che su quegli degli uomini perché sulle donne rendeva di più - eppure era una devastazione che si vedeva a occhio nudo.
E allora forse varrebbe la pena di cogliere il dibattito sorto, a bordo vasca attorno alla piccola Tareq, per invitare lo sport tutto a tradurre la tenerezza, lo stupore, in qualche caso lo sdegno per la bimba affacciata precocemente al mondiale dei grandi, in una seria riflessione sui diritti da diffondere e tutelare: diritti dei bambini, se questo è il caso (e molte volte nello sport lo è), ma anche diritti delle bambine che diventeranno donne, perché probabilmente il caso è questo.