Valeria Della Valle insegna Linguistica all'università la Sapienza di Roma. Dalla torre d'avorio è uscita, se mai ci fosse entrata ma tenderemmo a escluderlo, tanto tempo fa. Oggi è una voce nota alle radio e, per quanto possibile a un'italianista, un volto noto alle Tv, merito del suo lavoro di divulgazione, del suo sforzo di diffondere il buon italiano in ogni strato della popolazione. La campagna Dillo in italiano lanciata su Change da Annamaria Testa va nella stessa direzione dei suoi sforzi. Per questo le abbiamo chiesto di cogliere l'occasione per fare un rapido check-up all'italiano dei nostri giorni.
Professoressa Della Valle, partiamo dall’appello: l’Italiano è minacciato? Abbiamo bisogno di salvaguardarlo?
«L’italiano non è minacciato e non è in pericolo. Se è sopravissuto fino a oggi vuol dire che i contatti con le numerose lingue straniere (germanico, spagnolo, francese) nel corso dei secoli non lo hanno messo in pericolo, ma lo hanno arricchito. Il problema non è quello di salvaguardare l’italiano, ma quello di dare agli italiani una maggiore consapevolezza del valore della propria lingua, incoraggiandoli a usarla bene. In genere chi usa tante parole inglesi non la conosce bene, ma ne fa sfoggio senza quasi rendersene conto, per moda, per imitazione, per ignoranza. Le persone davvero colte non hanno bisogno di questi esibizionismi».
Da una parte ci sono Politecnici italiani, come Milano, che chiedono di convertirsi in tutto o in parte all'inglese, dall’altra parte si propone di far studiare – non si sa bene con quali docenti – scienze in inglese ai bambini fin dalle primarie. Che opinione ha di queste iniziative?
«Dell’iniziativa del Politecnico di Milano ho un’opinione pessima e sono molto critica nei confronti delle università italiane che si avviano su questa strada: è comprensibile che la comunità scientifica abbia adottato l’inglese per le pubblicazioni, in modo da facilitare la comunicazione internazionale. Diverso è il caso dell’utilizzazione dell’inglese come unica lingua nella didattica universitaria: quale sarebbe il destino della nostra lingua, privata dell’innovazione lessicale nei settori specialistici? Quello di una lingua di serie B, non più produttiva in un settori importanti come la scienza e la tecnologia. Per quanto riguarda le scienze insegnate ai bambini in lingua inglese, penso che l’idea si commenti da sola e mi auguro che non venga attuata».
La comunicazione, la politica, la pubblicità, le nuove tecnologie adoperano, sempre di più, lessici ibridi tra italiano e inglese: vezzo, necessità o strategia per complicare la comprensione?
«Si tratta di scelte dettate da meccanismi diversi: nella politica le espressioni inglesi vengono adottate per imitazione, per pigrizia o per inutile sfoggio: da question time a Jobs Act , da bipartisan a exit poll. Diverso è il caso della lingua dell’economia, nella quale i termini inglesi diventano internazionali ed è difficile proporne le traduzioni in ogni lingua (spread e default per esempio). Ancora diverso il caso della pubblicità, che deve attirare l’attenzione, e spesso lo fa preferendo parole o espressioni che sembrano dotate di maggior fascino solo perché inglesi o perché create pensando al mercato estero (si pensi al nuovo logo del comune di Roma: Rome&You, o a quello dell’Expo di Milano: Very bello)».
Facciamo il gioco della torre con le parole: ne scelga una da salvare e una da buttare. «Salverei trolley, ormai entrata nell’uso internazionale e difficilmente sostituibile da “valigia con ruote”; butterei con forza giù dalla torre rumour. Abbiamo pettegolezzo, chiacchiera, voce, voce di corridoio: perché preferire la parola inglese, col rischio di pronunciarla anche male?».