Da un lato i decreti del Governo, con l’obbligo di stare in casa e ridurre al minimo i contatti sociali per scongiurare la diffusione della pandemia. Dall’altro il comandamento dell’amore e la chiamata cristiana a essere gli uni fratelli degli altri. Come si può preservare la salute personale e collettiva senza dimenticare chi non ha una casa o chi per andare avanti ha bisogno dell’aiuto degli altri? La carità al tempo del Coronavirus porta con sé questioni difficili da sciogliere. Ne parliamo con don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità, che a Milano sta affrontando l’emergenza in prima linea.
Don Virginio, cosa significa vivere la carità ai tempi del Covid-19?
«Non c’è una ricetta. Siamo abituati alla “cerimonia dell’aiuto”, in cui noi siamo portatori di un servizio per gli altri, ma oggi più che mai serve condivisione. Ciò che conta è far sentire calore. Non dobbiamo perdere il senso più profondo della carità: l’amore è condivisione. Come dice il Papa, ricordiamoci che la Chiesa non è una ong e anche in questo tempo di Coronavirus la sua missione non è erogare servizi».
Quindi cosa deve fare la Chiesa?
«Andare oltre. Perché, diceva il cardinal Martini, la carità è eccedente! Cogliamo il sacramento dei poveri, impariamo dal loro attaccarsi alla vita. Certo non è facile perché finora ci ha sedotto la ricchezza, non la povertà. Però sempre Martini, nell’ultima fase della sua vita, ci ha insegnato che la debolezza diventa un orientamento. Non smarriamoci nell’operosità. Pensiamo, ad esempio, a cosa voglia dire curare in solitudine i sofferenti psichici o i figli disabili. Sono sicuro che anche l’operatività della Chiesa ne uscirà trasformata».
Come state affrontando l’emergenza alla Casa della carità?
«Seguendo le indicazioni: non si può essere incoscienti, le regole vanno rispettate per proteggere la vita, nostra e degli altri. Dobbiamo sentirci vicini seppur lontani. Io ho l’elenco delle persone che abbiamo ospitato, le sto chiamando una a una».
Avete dovuto sospendere alcuni servizi?
«Sì, quelli di prima accoglienza, ed è stato un dramma, una scelta imposta dalla situazione. L’abbiamo fatto per responsabilità verso le 130 persone che risiedono da noi stabilmente e che vivono il momento con grande difficoltà. Si tratta di persone fragili, già segnate, in molti casi, da sofferenze fisiche e psichiche: è dura fargli capire che si deve stare in casa, rispettando le misure di sicurezza. Per questo abbiamo scelto di concentrare i nostri sforzi sull’ospitalità residenziale, aumentando il livello di cura e di attenzione per le persone che abitano nella Casa».
Che ne è delle persone che frequentavano i vostri servizi diurni, dal Centro di ascolto alle docce?
«Stiamo cercando di non perderle di vista. Ma in questa situazione sono le autorità a dover intervenire facendosi carico di tutti i cittadini, compresi quelli che vivono per strada».
Cosa possiamo imparare da questa terribile esperienza?
«Il virus è irrazionale, ma libera tre energie: spirituale, culturale, politica ed ecologica. Riscopriamo le cose piccole, quotidiane, questa prova può purificare il nostro voler bene. Oggi tutti diciamo che la scienza ci deve guidare: ebbene, una volta passato il Covid-19 dovremo dire lo stesso per l’emergenza ambientale».
I cristiani come sono chiamati a vivere questi giorni?
«Sentiamoci vicini l’un l’altro. Non possiamo abbracciarci? Usiamo lo sguardo, come faceva Gesù. Questa crisi ci svuota, la nostra fede ora è senza certezza. Dobbiamo metterci di fronte al Crocifisso e chiedere “Signore, dove sei?”. Riprendiamo in mano la parola di Dio e la Gaudete et exsultate, l’esortazione del Papa sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Questo non è tempo vuoto, a perdere, ma un tempo per convertirci, siamo in Quaresima».
Lei cosa fa in queste settimane?
«Ho 75 anni, sto chiuso in casa. Prego, sosto in silenzio. Rileggo le Beatitudini e sento vicino san Francesco d’Assisi, il suo aver baciato il lebbroso e l’essersi spogliato di ogni ricchezza. Come tutti ho paura, ma la paura non va trasformata in angoscia. Confidiamo nel Signore, amare è avere fiducia».
Con quale spirito dobbiamo guardare al futuro?
«Usciremo nuovi, però tocca a noi dare un senso. Il richiamo del Papa a dire insieme a tutte le confessioni cristiane il Padre nostro significa non farci perdere la fiducia: che siamo presi per mano da colui che ci ha promesso la sua fedeltà. Prepararci per quando si potrà uscire».